I venti gelidi s’inseguivano fra i quattro lati della Piazza Rossa: “Magari la guerra fosse più piccina” Disse ad alta voce lo zar Fëdor I Ivanovič, figlio di Ivan il Terribile, contemplando il suo svettante cannone bronzeo, dal tremendo calibro di quasi un metro. L’aveva fatto fondere, con spesa significativa, per mano di Andrey Chokhov, famoso armaiolo e costruttore di campane. L’intera faccenda, a conti fatti, si stava rivelando una tremenda delusione. Prima di tutto, l’oggetto pesava 40 tonnellate. Come avrebbe mai potuto trasportarlo, sotto le mura dei suoi innumerevoli nemici? Centocinquanta bombarde, aveva impiegato il suo famoso genitore, per scardinare i portoni del khanato di Kazan, prima di annientare definitivamente la minaccia tatara verso il suo regno. E alle soglie del XVII secolo, oramai era chiaro, le armi da assedio facevano la differenza. “Almeno, sono arrivate le mie palle? Trovatemi un bersaglio! No, stavolta niente mucche o condannati a morte!” Non l’aveva mai capita, questa necessità di essere spietati.
Fëdor fu l’ultimo esponente della dinastia dei Rurik, l’erede di una Russia sbattuta dalle guerre, povera e piena di vedove rabbiose. Le faccende di governo, che non lo affascinavano, le aveva sempre delegate con gratitudine ai due generosi zii, dedicandosi esclusivamente agli amati viaggi, all’arte e alla preghiera. Più qualche hobby di contorno, come i cannoni. Questo qui, poi, era magnifico. Sei metri di lunghezza, con bassorilievi bellici, citazioni letterarie e intrecci floreali. In pieno centro, campeggiava un suo ritratto equestre, dal piglio marziale trascinante. Ah, quale orgoglio nel suo sguardo! Che splendida…Maestosità! Gli inglesi, principali alleati commerciali del paese, crudelmente chiamavano il sovrano bellringer (il suonatore di campane). Qualcuno, rigorosamente alle sue spalle, diceva che fosse lievemente ritardato. “Sissignore, mio zar!” Rispondendo, con prontezza, a un gesto di sopracciglio dell’altero ufficiale, i soldati iniziarono a caricare l’imponente arma. Fëdor sorrideva, osservando quell’organizzata baraonda. Pensando, muoveva leggermente le sue labbra: “Ah, se soltanto le vittorie si conquistassero coi giocattoli…”
La storia non è stata generosa con lo zar Fëdor I Ivanovič, considerato dai suoi contemporanei un ingenuo, dai posteri un personaggio inadeguato a governare. Ricevette anche la sfortuna di una salute cagionevole, come narrato nel secondo incalzante dramma della trilogia teatrale di A. K. Tolstoy (1817-1875), immediatamente bandito dai censori. Ci ha lasciato, comunque, una significativa eredità: la bombarda tradizionale più imponente della storia, che aveva soprattutto un grande pregio. Era troppo grande per uccidere (con efficienza). Tecnicamente, in effetti, si trattava di un mortaio; la canna non raggiungeva la lunghezza giusta in proporzione con il calibro. Avrebbe sparato, come una lupara, non grosse palle, ma centinaia di pallini. Custodita orgogliosamente per diversi secoli, la splendida follia rimase innanzi alla fortezza del Kremlino, difendendo le sue spesse mura. Tuonò, si ritiene, al massimo un paio di volte. Ma fece molto per l’immagine. E quel lato della piazza fu chiamato, con macabra casualità, il cammino dei teschi.
La dottrina bellica della Grande Madre Russia, a partire da quel giorno, ha dimostrato un certo talento per simili armamenti-dinosauro. I carri armati Kliment Vorošilov, invincibili giganti della seconda guerra mondiale, trovarono l’evoluzione in prototipi tanto grandi da non potersi quasi muovere. Treni corazzati senza ferrovia, temibili quanto lontani dal fronte di battaglia. Fino alla stipula della lungamente attesa pace, la tundra siberiana continuò ad essere protetta dal primo modello della serie, il KV-1, risalente al vetusto 1940. Nel 1961, l’Unione Sovietica costruì la bomba più grande della storia. 50 megatoni di orrore nucleare, 3125 volte l’energia sprigionata, dagli Stati Uniti, sopra l’innocente città di Hiroshima. Quest’arma “migliorata” era così pesante, tanto distruttiva, che durante il test nella baia di Mitjušicha si ritenne opportuno sganciarla con il paracadute; altrimenti, avrebbe distrutto anche l’aereo. Difficile immaginarne l’utilizzo in condizioni belliche reali. Per fortuna!
Le cose piccole, loro si, presentano dei rischi. Se lo zar Fëdor, invece di costruire il cannone più spropositato che potesse immaginare, avesse inventato questi malefici dispositivi, come dimostrato sul canale YouTube di T. Shamir, le cose sarebbero andate assai diversamente. Si sarebbe guadagnato il rispetto dei viventi, come pure dei loro discendenti. La guerra dei lillipuziani può comunque far paura: guardatelo, quel mini-cannoncino, mentre sfonda bottiglie, bicchieri e lampadine. Con tre colpi riesce a fare fuori persino un resistente monitor a tubo. E la piccola balestra, come dà fuoco al suo nemico designato, l’orribile foglio di carta…Nella botte piccola c’è il vino buono? Forse! Sarà meglio perforarla. A colpi di freccette o pallini distruttivi. Le armi piccole sono le più rischiose. Basti pensare alle creazioni nanotecnologiche teorizzate in questi giorni…
Per chi volesse sperimentare l’esplosiva esperienza in prima persona, su Amazon americano è possibile ordinare la versione fatta in serie della stessa cosa. È legale ovunque in quel paese, tranne che all’interno del pacifico stato di Washington. Benedetto sia il secondo emendamento.