L’epopea degli sport estremi contemporanei si esprime attraverso l’avanzamento della tecnologia; ciò è vero, prima di tutto, nel procedimento consecutivo della divulgazione. Dove prima ci si accontentava di riprese a distanza, o fotografie sgranate e un po’ mosse, inevitabilmente realizzate da terzi, oggi c’è questo: la testimonianza perfetta, in alta definizione, di una sessione di surfing a Teahupo’o, presso le affilatissime scogliere sommerse dell’isola di Tahiti. Gli atleti della tavola che tengono ferma la videocamera digitale, aspettando il proprio turno, sfruttando al massimo la poesia filosofica di quell’irraggiungibile istante. E l’assenza più totale di un commento e di altri orpelli descrittivi (manca persino la sovraimpressione dei nomi) che non fa che accrescere, per noi osservatori virtuali, il senso fantastico di essere lì, sopra e sotto l’acqua, oltre i limiti degli ambienti terrìgeni… Questa è, in fondo, la funzione socio-dinamica dell’eroe: annientare con le sue gesta le limitazioni dell’individuo, diventando qualcosa d’altro, trasfigurandosi a guisa di un essere primordiale. Le leggende scorrono per canali diversi, secondo le scelte culturali dei popoli. Gilgamesh, re mitologico dei sumeri, rivivrà eternamente attraverso le iscrizioni di un antico alfabeto. Gli eroi greci, figli di Zeus, si materializzano tramite il canto ritmico degli aedi. E tre le isole vulcaniche della Polinesia, come questa verdeggiante Tahiti, piuttosto che scritti e parole, trionfò l’importanza dei gesti. Degli equipaggi di canoe colossali, che giunsero a terre mai neanche pensate, combatterono territorialmente tra loro e poi tracciarono, segnandolo sulle pietre, un disegno che poteva considerarsi un’idea: l’uomo, tra le onde. Un tondo simmetrico per la testa. Cinque linee, braccia, corpo e gambe. Più un’altra, spessa, perpendicolare…Ovvero, la tavola!
Gettati via i remi, appiattita le imbarcazioni, ciascun clan dunque si espresse così, nell’assoluta realizzazione del suo dinamismo, surfando. Non c’era davvero un perché, oltre a dar prova del proprio coraggio, dei meriti di un’intera stirpe. Però, ben presto, apparve chiaro che non tutti potevano esprimersi allo stesso modo. Semplicemente, gli mancavano gli strumenti. Scogliere come questa, sulle propaggini meridionali di Tahiti Iti (la piccola, contrapposta alla sua sorella Tahiti Nui) in grado d’infrangere cavalloni alti parecchi metri, trasformandoli nel tesoro di un regno. Da guardare spesso a distanza, con un semplice, assoluto senso di rispetto. A meno di non voler rischiare la vita…
Come può dirsi appropriato, ad oggi, non c’è una cultura immutabile del concetto di: “far surf”. Questa disciplina sportiva, o per meglio dire stile di vita, completo di arte specifica, letteratura esclusiva, risente troppo dei mutamenti climatici per poter contare su degli assoluti. Come si erodono i fondali, così variano i metodi per cavalcarli. Quindi quel disegno concettuale, dell’uomo che surfa, si trasformò gradualmente in pittura, ricamo, fotografia e video-epopea procedurale. Mentre, nel contempo, si udiva lontano il rombare di un meccanismo a motore. A che serve cambiare il racconto, se i capitoli restano uguali?
Giunse ad un certo punto l’ora, il giorno del cambiamento, per un gesto geniale di Laird Hamilton, sopra quelle stesse scogliere Tahitiane, l’ambiente pericoloso della baia di Teahupo’o. Era infatti il 17 agosto del 2000 quando lui, in piedi sulla tavola, con l’aiuto del suo amico Darrick Doerner, dietro al manubrio di una moto d’acqua, riuscì a catturare un gigante. Una di quelle onde, alte oltre 10 metri, più veloci di 50 Km/h, che probabilmente i tahitiani ancestrali attribuivano a Maui, supremo signore del Sole. Fu fatta la storia. Qui si racconta, in un documentario, della sua straordinaria esperienza, di come lui abbia, istintivamente, iniziato a inclinarsi in avanti, piuttosto che indietro, per evitare di essere risucchiato dalla furia del mare. E di cosa abbia significato, quella foto, sulla copertina di Surfer Magazine, con la semplice didascalia di “Oh my God!” La dimostrazione che non c’era onda troppo pesante, per il coraggio dell’uomo? E che l’ingegno, la tecnologia, non potesse concedergli di sovrastare.
Il tow-in surfing (surfare con il traino a motore) è una tecnica relativamente nuova, che non piace a tutti. Alcuni puristi, i seguaci del gesto dell’aloha, del vivere fuori dagli schemi, della spiritualità neo-hippie ed ecologista, vi individuano l’ostacolo verso il raggiungimento del Nirvana Oceanico delle onde. Ne detestano il frastuono, i fumi nocivi di scarico. Ed anche questo fa parte di quel mondo, passibile di variegate interpretazioni, ciascuna valida nel suo contesto. Furono del resto i surfisti annoiati, nei giorni di bonaccia, a donarci le tavole da skate, da snowboarding, per poi attaccarci aquiloni, elicotteri e vele. A seconda delle esigenze, verso l’eterna ricerca del movimento.
Le loro storie sono disseminate praticamente dovunque, fra le onde pixellate del web, negli aggregatori dei video, come YouTube o Vimeo e poi… Per trovarle, basta surfare.