Cavalcando poco innanzi all’alba, guerrieri variopinti tagliavano la terra medievale. Con punta di lancia, alte insegne e zoccoli di ferro, per valli e sopra i monti, verso le rocche ed i castelli, sulle ali di un emblema e di un’idea. Oltre le forti cittadelle. Tagliando le muschiose strade, ormai dismesse, lasciate dagli antichi imperi. Ma il cavallo pesa, e ancor più se sovrastato da un soldato, da un barone, da un conte o dal sovrano, con tanto di vistosa sella, corona ingioiellata. E dagli ad agitare il pugno, agricoltori, servi della gleba, sui vostri poveri terreni, segnati dallo zoccolo e dallo stivale! Le vivande valgono, ma non quanto le conquiste “Tagliate per i campi, miei prodi!” Gridava sempre il generale: “La strada è ancora lunga, ma chiara per noi tutti! Deus lo Vult!” Nonché diretta verso l’obiettivo, però diciamolo: a discapito di altri. Il caso voleva, tuttavia, che ci fosse un barlume di speranza, ogni volta – Lo sterco di cavallo. Tanto saggia era quella bestia, quadrupede di augusta nobiltà, che galoppando sopra spighe o cavoli, ci lasciava il suo ricordo, caldo e fumigante, quel sommo signore dei concimi. E passata la stagione della guerra, da lì giungeva la tardiva primavera: per ogni escremento un grande fiore, vita e nutrimento degli insetti. Qualche volta pure il frutto, se si era fortunati, su cui marciare nuovamente.
Nel frattempo, sugli alberi, allora come adesso, l’umbonia, guerriero (minuscolo) del suo regno, ci osservava con stolida perplessità. Anche lui corazzato, defecatore strabiliante, fiero portatore d’araldiche improbabili, sicuramente senza senso. Questo insetto, dallo sgargiante quanto aguzzo copricapo, viene talvolta preso ad esempio dell’incredibile morfologia di certe creature, sviluppatesi per scopi vagamente misteriosi. Ma così devoti sono i libri di scienza a quelle arci-note prime donne del mondo degli insetti, i coleotteri, o alle farfalle vanitose, che spesso ci si dimentica di queste piccole membracidae, parassiti fuori dal comune, amici dei rettili e delle formiche. Parliamone per due minuti.
Questo signore accalorato è Stephen Brown, ufficiale agrario dello stato della Florida, alle prese con tre alberi piuttosto malridotti. La ragione è presto detta: ciascuno di questi arbusti, ma in particolare il più scheletrico, quello centrale, ha l’afflizione di un’intera colonia di thorn bugs (insetti spina), ovvero degli appartenenti, per l’appunto, alla famiglia delle membracidae. Si tratterebbe, credo, di umbonia crassicornis, ovvero la variante più comune. Con la loro sottilissima proboscide, facente anche funzione di ovopositore, loro perforano i rami della pianta, succhiandone la linfa di sostentamento. In cambio, reinterpretando a loro modo la fotosintesi clorofilliana (riciclo d’aria ormai non più respirabile), restituiscono dall’ano fiumi di gustosissima melata, lo sterco zuccherino. In piccole quantità, questi insetti non sono poi così nocivi. Le formiche, soprattutto, ma pure i gechi, a quanto pare, li seguono da presso, per fagocitare i loro scarti. Questi ultimi, secondo Wikipedia, possono persino comunicarci, battendosi la pancia con le zampe. Però in situazioni come queste, in cui di parassiti a spina ce ne sono semplicemente troppi, succede qualcos’altro, di ben più indesiderabile: tutta quella melata, lasciata lì a marcire, fermenta, diventando base per un fungo nero. A quel punto, gradualmente, la pianta ne risente, poi muore.
I membracidae sono insetti assai diffusi, presenti nei cinque continenti. Ve ne sono due tipologie fondamentali: quelli delle regioni temperate, univoltini (una generazione l’anno), tendenzialmente solitari; in questo macro-gruppo rientrano, ad esempio, la cicalina bufalo e il diavolino, due specie presenti anche qui nel Nord Italia. A loro si contrappongono le membracidae del gruppo tropicale, dette comunemente tree hoppers (saltatori degli alberi) che vivono in comunità, sono bivoltine (due generazioni l’anno) e svernano allo stato adulto. Come ninfe, ancora giovani, piuttosto che salire sugli alberi più alti restano in terra, succhiando il proprio nutrimento dai cespugli o dai virgulti degli arbusti. Non c’è un modo immediato per distinguere il maschio dalla femmina, bisogna guardagli i genitali. Probabilmente, non è facile.
La caratteristica più straordinaria di questi insetti, va da sé, sarebbe l’elmo. Si tratta, in effetti, del pronoto, ovvero la parte superiore dell’addome, sviluppatisi con foggia stravagante. Secondo alcuni, servirebbe per scoraggiare i predatori, ricordando la forma di un’arma vegetale. Ciò non spiega, tuttavia, certe specie in particolare, come il bocydium globulare, che pare piuttosto l’opera di uno scultore astratto, con le sue quattro sferette irsute, sospese sulla testa.
Per la loro affinità con la cultura giapponese, che già li ha eletti ad emblema nazionale, già ben sappiamo chi sono gli insetti samurai. Del resto, l’elmo ce l’avevano anche loro. Questi lontani cugini qui presenti, beh, potremmo candidarli a paladini d’Occidente, devastatori dell’altrui verzura. Altrettanto invisi all’agricoltore di quei tempi, d’arme, d’eroi e degli escrementi.