Sopra la porta del tempio di Tōshō-gū, a Nikkō, in Giappone, da quattro secoli ci sono tre scimmiette del tutto denutrite. Non mangiano panini. Né patatine fritte, né tantomeno le banane. Non si muovono e non producono alcun suono. Di una simile abulia però non c’è molto da stupirsi, visto che sono -ohibò!- di legno. Questi sono i loro nomi: Mizaru (non vede) Kikazaru (non sente) Iwazaru (non dice). Sono famosissime. Le troviamo raffigurate nei fumetti, sui libri e sui diari, nelle agende e appiccicate, come adesivi, alle carrozzerie di molte auto, avviate per le strade più diverse. Il Mahatma Gandhi, che notoriamente rifiutava ogni forma di possesso, era solito conservarne una piccola riproduzione statuaria, da contemplare. Ed è sorprendente l’importanza che può avere una simile minuzia, nella vita di una figura storica importante. Perché ci ricorda che il cervello umano lavora per immagini ultra-chiare, o per meglio dire: icone. La gestualità delle tre scimmie, ciò che fanno con le mani, è una potente allegoria. Il cui significato, come spesso capita, può venire diversamente interpretato. Le tre dottrine principali dell’Estremo Oriente, confuciana, taoista e buddhista, concordano su questa versione: Mizaru non vede (il male), Kikazaru non sente (il male), Iwazaru non dice (il male). Per il resto, tutto OK. Sono, queste scimmiette collettivamente note con il termine Sanzaru, una metafora personificata di animale probità, preziosa proprio nel suo essere fine a se stessa. La cultura popolare d’Occidente, che non può fare a meno di chiedersi “Perché lo fanno?” Di questi tempi vi ha costruito sopra uno stiléma, spesso ripetuto. Nei drammi criminali, tra prigioni e aule di giustizia, anti-eroi di dubbia moralità le invocano imitandole scherzosamente, a suggestione d’omertà. “Una mano lava l’altra, bro! Oh, qui nessuno ha visto nulla, stai tranquillo!” Come al cinema, nei videogiochi. Succede pure in GTA 5. E per un attimo persino Trevor, il più squilibrato degli alter-ego ludici di quel settore, smette rispettosamente di parlare.
Vorrei aggiungere la mia versione. Perché nel caso della terza scimmia, quella che si copre la bocca, c’è uno spunto d’approfondimento. Fin dall’epoca di Nara (710– 794) sussiste in Giappone il più curioso dei pensieri. Che i denti umani siano brutti, a vedersi; o quanto meno, ineleganti. Per questo la moda dei nobili di corte, nel periodo immediatamente successivo, imponeva che si tingessero di nero. E i samurai portavano un ventaglio, per coprirli, o usavano la manica del kimono. Ancora oggi, di una simile stranezza culturale, se ne vedono gli effetti, però ridotti al solo mondo femminile, più affine al concetto universale di graziosità. E come si usa dire: “Monkey see, monkey do…”
La catena di fast-food stile U.S.A. Freshness Burgher, con sedi sparse per il Giappone, aveva un problema tutto suo, senza assoluti termini di paragone. Ovvero, il fatto che nessuna donna ordinasse il classic bargher, mega-panino d’eccezione, con gravi conseguenze di bilancio.
La ragione, a questo punto, sarà chiara: avere una bocca piccola (ochobo) si dice fa bellezza, mentre aprirla come un forno, per trangugiare un pasto infarcito e luculliano, molto meno. La soluzione che costoro hanno scelto di adottare, anche grazie all’intervento dell’agenzia Ad Dentsu, colpisce per l’ingegno singolare: coprire con questo Liberation Wrapper la bocca della cliente, proteggendola dalla vista di chi è davanti mentre lei, serenamente, si mangia il suo pranzetto delizioso. Il termine wrapper, in inglese, si riferirebbe all’incarto dell’hamburger, quello che stavolta, trasformato a misura di origami, diventa rigido, come un ombrello, e raffigura pure, sul davanti, la perfetta boccuccia di un’affascinante rosa. Magari, ecco, non rivolgetevi alla fanciulla senza alcun preavviso. Chissà che non stia in quel momento, a vostra insaputa, masticando.
Le reazioni sul web sono a dir poco contrastanti. Qualcuno pensa che si tratti semplicemente di una presa in giro. Esistono, del resto, validi precedenti. Chindōgu, in Giappone, è l’arte del gadget impossibile da utilizzare, per la sua tremenda assurdità. Ne hanno costruiti a dozzine. Tuttavia questo termine, coniato da Kenji Kawakami, va di pari passo con un decalogo di regole precise. Simili cose, per quanto teoricamente funzionali, dovrebbero risultare troppo strane, ridicole per il mondo reale. E in questo caso, la storia del panino, un certo senso vi si può trovare. Le icone, come dicevamo sono universali e mostrare i denti, a conti fatti, può considerarsi un chiaro segno di aggressività. Così per i primati, come per gli uomini – e le donne.
L’altra interpretazione della campagna pubblicitaria, più problematica, è quella che vorrebbe usarla come prova di un’ingiustizia percepita, ai danni del sempre bistrattato gentil sesso. Facendosi paladini di questo concetto vago ed aleatorio, “la donna giapponese” in quanto tale, i commentatori del video si dicono grandi oppositori di una simile disparità d’aspettative. La stessa compagnia che l’ha creato, del resto, sembra interessata a farsi conoscere in quel modo travolgente, suscitando discussioni e uno spietato culture-clash. Basti pensare al pre-nome della tovaglietta della discordia, questo termine inglese Liberation, tra i più pericolosi in assoluto. Cosa dovrebbe essere, in tale prosaico contesto, la libertà? Una scelta fatta, d’ignorare dei canoni di bellezza, poco pratici, imposti dalla società comune? Sarebbe, allora, come quella di chi non si trucca oppure veste comodo, perché passa semplicemente del tempo con le amiche. O anche di tutte coloro che regolarmente vanno al fast-food, un gesto tutt’altro che propedeutico all’aspetto fisico e alla linea.
Anche in Giappone, di questa presunta imposizione, sono molte le ragazze che ne ridono, senza coprirsi il volto né venire emarginate. E se in giro ce ne sono di altre, ancora inibite dal problema dell’ochobo ma che amano mangiare all’americana, gli consiglierei delle più eleganti patatine fritte. O per restare in tema, le cosiddette Freedom Fries.