La vernice che impreziosisce le tele degli autori, oppure le case e i mobili dei costruttori, è uno strumento difficile da controllare, tendenzialmente disinteressato ai nostri molteplici bisogni. Va mescolata, ben disposta col pennello, sfumata e lasciata ad asciugare mediante l’impiego di metodi particolari; guai, a chi dovesse trattarla senza l’adeguato senso di rispetto. Quel fluido ribelle, colando a destra e a manca, farebbe i suoi spietati comodi, a danno dell’ambiente circostante. Lo capiscono la panchina scolorita, il muro screpolato, l’automobile arrugginita…E i loro sfortunati utilizzatori, soggetti ai crismi dell’imprecisa copritura. Chiunque apra quel barattolo, evocatore del genio semi-liquido pigmentato, deve farlo a suo rischio e pericolo, con limiti di tempo e potenzialità. Non si cancellano gli errori. Dieci minuti, oppure 10 ore, non importa: esaurita l’alchimia, tutto torna fisso minerale, sedimento fragile, impossibile da plasmare. Finisce, insieme all’ipotesi dell’arte. E ogni lasciata è persa, senza fune di recupero, nel perenne regno del rimorso e del colore. Perciò, da tradizione, si studia molto a lungo, onde poter stendere un progetto, oppure un disegno, prima di operare. Soprattutto sarebbe questa, secondo molti, la vocazione del pittore. Ovviare con l’ipotesi, correggere prima del tempo, applicar la tempera, l’olio, il pennarello soltanto con l’opera già fatta (nella sua mente). Per creare, nel mondo fisico, un regno della perfezione.
Questa configurazione visuale sarebbe dunque il grande merito dell’Accademia, intesa come scuola classica di matrice antica, pura, dedita nella ricerca del sublime. Nonché, talvolta, uno fra i limiti più stringenti, tra tutti quelli posti alla creatività dell’uomo. Perché l’arte che realmente rappresenti la natura, per sua stessa definizione, dovrebbe prescindere da limitazioni di genere e contesto. Come ogni altro processo generativo, sia o meno lo sfoggio d’intuizione, manualità ed esperienza tecnica applicata, oppure, persino, in assenza volontaria di tali elementi. Come insegnava la dottrina del Taoismo, a volte la saggezza è l’inazione (wu-wei). Lasciando che le cose prendano l’iniziativa, se ne può restare affascinati.
Così nascono, dai loro soggetti nascosti nelle pieghe più profonde dell’ermetismo, queste colanti opere dell’artista newyorkese Holton Rower, praticante di una tecnica piuttosto interessante, definita tall painting (pittura dall’alto). Che consiste nel far fare tutto, senza interventi di censura, ad un duo davvero d’eccezione: gravità e vernice, liberate dalla cima di un quadrato. E il risultato che si ottiene, senz’altro fuori dal comune, rende giustizia all’originalità di tale iniziativa. Serve giusto un ampio spazio, dove poterle collocare. E un po’ di fantasia, per riuscire ad apprezzarle: i commenti a questa tipologia di video, pubblicati con l’accelerazione digitale della tecnica time-lapse, non sono sempre positivi. Peccato ci si fermi all’apparenza, senza grattare quel superficiale strato di colore! Ciò che sembra semplice agli occhi di qualcuno, molte volte non lo era, prima di pensarlo. “Macchie”? Non scherziamo.
Lui, giustamente noncurante, costruisce le sue strutture verticali in compensato, fatte di semplici estrusioni geometriche, tridimensionali. Poi, con l’aiuto di amici reclutati all’occorrenza, lascia cadere sulla cima delle vernici poco dense, un colore alla volta, ad intervalli regolari. Lentamente, tutto scende verso il basso…Così scorrendo, come fanno fiumi, il rosso sangue, deserti o candidi ghiacciai perenni, crea una successione d’onde, perfettamente regolari, concentriche espressioni della stessa forma. Verde, marrone, azzurro? Forse una foresta, con un fiume in mezzo. Rosso e giallo? Le fiamme di un vulcano! Si tratta, fondamentalmente, di geometrie frattali: riproposizioni senza fine dello stesso tema, ancora e ancora, sempre concentrico e omni-comprensivo. Se ne potrebbe trarre una formula matematica; che definisca ciascuna opera, certo, però pure la sua controparte naturale. Ed è proprio questo il bello, la reciproca ricorrenza, fra la materia e questa strana arte. Con l’accettabile esclusione dei quattro angoli della piattaforma, lasciati vuoti, calpestati per necessità. Ogni mezzo espressivo, per quanto sofisticato, comporta qualche improvvida limitazione.
Non c’è studio prospettico, preciso controllo d’artista, nell’applicazione di questa occulta metodologia. Soltanto la preparazione di alcuni presupposti e la scelta dei singoli colori, oltre alla pazienza. Quella, sempre. C’è pure un detto americano “[To] watch paint dry” (guardare la vernice che si secca) usato per riferirsi ad attività particolarmente noiose, considerate fini a se stesse. E una tintura come questa ad asciugarsi, si capisce, deve metterci diverse ore. Eppure l’idea di fondo, previo il superamento di qualche vecchio preconcetto, resterà per sempre valida. Di qui all’eternità.