L’uomo che vive nel cubo di New York

Man in a Cube

Un’intera casa, obliqua, che ruota liberamente di 360 gradi, dotata di gabinetto chimico, tavoli a scomparsa e un pratico generatore a pedali. Nascosta dentro a un cubo, che dovrebbe, in teoria, servire per tutt’altra cosa. Che poi sarebbe il celebre capolavoro di Tony Rosenthal, pioniere dell’interazione fra l’artista degli spazi pubblici e chiunque passi di lì, chiamato da lui a partecipare, volta per volta, della sua caratteristica creazione. Magari non in questo modo tanto viscerale. Gli scultori dell’astrattismo, piuttosto che rappresentare la figura umana, per veicolare un messaggio scelgono una forma. Ma come direbbe Platone: non si può assegnare un peso a questa grande geometria. I solidi dell’empireo, che descrivono i confini della materia, fluttuano liberi nella psiche, perfettamente ineffabili nella loro sublime sacralità. E più le cose sono simmetriche, ineccepibili, meno si prestano alla gretta quantificazione da parte delle moltitudini. Tranne quando si riesce, in qualche modo, a dargli forma materiale. Bisogna intrappolarli nella prigione del metallo solido, sostanza costruttiva d’elezione. Allora una gravità, inevitabilmente, ce l’hanno: quel cubo, ad esempio, pesa giusto 830 Kg. Per usare un termine di paragone, la sfera bronzea del Ministero degli Esteri, di Arnaldo Pomodoro ha una massa di 10 tonnellate circa, quasi 12 volte tanto. Che opere, che arte! Verrebbe voglia di eleggerle a propria dimora. Così qualcuno, per gioco, ci fa credere di averlo fatto. Costui si chiama, neanche a dirlo, Dave – come il protagonista della pubblicità dei cellulari discussa, proprio ieri, in questi stessi lidi.
Nel corso del suo esaustivo exploit, denominato, alquanto appropriatamente, Man in a Cube, il giovane manager ci parla dei pregi, e dei difetti, della sua originale scelta immobiliare. Ricavarsi una tana fra le pieghe degli arredi urbani, dentro quella che potrebbe dirsi la sua fortezza di Alamo, ultimo rifugio dagli stress del mondo lavorativo…

Ebbene a New York, dal 1967 c’era questo cubo nero, che ormai tutti chiamano “di Astor Place” dal nome del luogo in cui si trova (una frazione di Manhattan). In origine, ci fa capire il titolo ufficiale, doveva costituire l’eclettico omaggio a quella battaglia del 1836, uno dei momenti più importanti nella storia degli Stati Uniti: l’assedio di Alamo, per l’appunto. Il cubo è vuoto, per girare meglio, lungo l’asse orizzontale. Faceva parte di una serie di 25 sculture temporanee, messe in opera dall’amministrazione della città nel 1967, per un tempo inizialmente previsto di 6 mesi. Ben presto, tuttavia, come avvenne a Parigi per la Torre Eiffel, la gente se ne innamorò, chiedendone il mantenimento a tempo indeterminato. E quel cubo lì rimase, affettuosamente ricoperto di smog, graffiti e di tutte le altre cicatrici tipiche della difficile vita urbana. Meno male che nel 2005 l’hanno restaurato.
Piramidi, obelischi, steli e dolmen megalitici dei nostri tempi. Viviamo nel regno delle proporzioni, con tanta disinvoltura che finiamo per non farci caso. Basterebbe, a volte, un attimo di meditazione. E questo potrebbe essere il (non tanto) velato messaggio del video virale oggetto di questo post, creato dal neonato brand americano Whil, il quale, da un portale web particolarmente minimalista, si propone d’insegnarci metodi per meglio metabolizzare la fatica del mondo tecnologico. Una sorta di Zen dell’era digitale.
Cosa ci vogliano vendere, in effetti non è chiaro: cliccando su shop compare l’enfatica dichiarazione “TU, hai già tutto quello che ti serve”.  Video a corredo, nel frattempo, spiegano come isolarsi mentalmente dall’ambiente circostante, in soli 60 rilassanti secondi di comunione con l’Universo Platonico delle forme. O il caro vecchio Buddha, del resto chi lo sa.
Va però riconosciuta questa cosa. Vivere nel cubo ha un suo perché, il più delle volte. Diciamo, quando nessuno ha voglia di farlo girare (ovvero quasi mai). E poi, sai che risparmio!

Lascia un commento