La lingua, molle, floscia o rigida all’occorrenza, costellata di papille e lustra di tiepida saliva, può metabolizzare vie d’accesso per mondi lontani, sapori e gusti misteriosi. Nel contempo, regolarmente, restituisce suoni multiformi, lunghe parole, storie. Quelle, per l’appunto, dei veterani marinai. Quante città costiere o porti commerciali, sono diventati il palcoscenico d’improvvisate rappresentazioni teatrali, a luce di lanterna, mentre fuori batteva pioggia e dentro scorreva birra, di mostri marini, kraken imponenti e divinità chtonie provenienti da stelle nebulose…Quanti capitani gamba di legno, corsari dall’occhio bendato, pirati col pappagallo, hanno scritto di una loro balena leggendaria, gloriosa nemesi e paragone d’empietà! Eppure stranamente, come spesso capita, da sempre, mancavano le prove. L’eterno destino dei criptidi (bestie parascientifiche) è quello di comparire soltanto in fotografie sfocate, video rovinati oppure, prima che s’inventassero simili cose, unicamente nel regno della nostra fantasia. Tranne che in un caso.
Camminando sul molo 54 della città Seattle, insidiati dai freddi venti del Pacific Northwest, l’impreparato visitatore potrebbe scorgere un portale fuori luogo. Di fronte a una casupola isolata, due svettanti totem colorati, sormontati dal fregio di un’ellenico Partenone, però rivisto con il gusto decorativo degli indiani Cherokee. E non è una visione. Si tratterebbe, in effetti, del celebre Ye Olde Curiosity Shop, istituzione più che cententaria, negozio di gadget, souvenir, ammenicoli e altre facezie oggettistiche di varia provenienza. Qui, sopra una mensola, dentro un barattolo di trielina, viene custodito l’esemplare di vongola più grande del mondo. Venne trovato, strappandolo dalle profondità stesse della terra, nel 1978, presso la gelida insenatura di Puget, al confine tra lo stato di Washington e la Columbia canadese. Al momento della sua prematura morte, pesava quasi 5 chili ed aveva, secondo stime accreditate, 168 anni d’età. Lo stesso attimo in cui nacque questo favoloso essere, un giovane Lord Byron attraversava a nuoto i Dardanelli. Napoleone sposava Maria Luisa d’Austria. Straordinario, in particolare, è che tale innocuo mostro non fosse l’unico al mondo. Ce ne sono molti come lui. Migliaia, milioni. Chi mai potrebbe uccidere qualcosa di tanto antico e saggio? Molti, a quanto pare. Per esempio, Becky.
Condizionamenti e suggestioni pseudo-visuali a parte, il geoduck (pronuncia gooy-duck) è il mollusco bivalve più imponente del pianeta. Il suo nome viene dalla lingua amerindia lushootseed, parlata dalle popolazioni indigene di Tulalip e di Skykomish. Prospera, naturalmente, in un’unica regione: l’area nordovest degli Stati Uniti, oltre a un pezzettino del vicino territorio della British Columbia. Costituisce la più importante esportazione culinaria di quei luoghi. Nell’Estremo Oriente, in particolare, viene apprezzato per il suo impiego nella medicina tradizionale cinese, nonché per la preparazione di un tipo assai pregiato di sashimi, molto costoso e saporito, detto miruiga o mirukuigai. Se assaggi il geoduck, non te lo scordi tanto presto. La teoria scientifica del gusto, che ne divide la percezione in cinque aree distinte, descrive accuratamente le differenze fra dolce, salato, amaro, aspro ed umami, ovvero il sapore dell’acido di glutammato. Quest’ultima tipologia fu scoperta, neanche a dirlo, dal professore dell’Università Imperiale di Tokyo Kikunae Ikeda, nel 1908, analizzando le caratteristiche di un brodo di alghe. E a quanto dicono, avrebbe anche potuto assaggiare uno di questi titanici molluschi, fra tutti i cibi, uno di quelli dal più forte contenuto di umami. Qualcuno, per non sprecare nulla, si mangia pure le interiora. E come biasimarli? Una volta esportato verso la Cina, un geoduck adulto, o particolarmente grosso, può valere più di 400 dollari. La fortuna di un abile cacciatore-scavatore, quindi, sarebbe paragonabile a quella di chi possegga un cane da tartufi. L’analogia è appropriata, per molteplici ragioni.
Proprio come un tubero, il geoduck vive sotto terra, filtrando i nutrienti che lo circondano, senza neanche un’oncia di coscienza intelligente. Dispone, a tal fine, di due lunghi sifoni, l’uno per succhiare il plankton di cui si nutre, l’altro per espellere le scorie. Arrivata la stagione dell’accoppiamento, altro non fa che liberare il suo patrimonio genetico nell’acqua, lasciando alle correnti marine il compito di mescolarlo. Da dove possa spruzzarlo, non lo so.
Ebbene, il geoduck è proprio come… Il tartufo. O al massimo, la proboscide dell’elefante. Sarà meglio, comunque, non condirlo con cavoli e Piselli.