Due Facce, l’alter ego maligno del procuratore Harvery Dent, prima di annientare le sue vittime era solito lanciare una moneta. Testa o croce, vita o morte. L’incapacità di prendere una decisione, per chi detiene ingiustamente un simile potere, è il più chiaro segno di follia. Gli eroi non hanno dubbi o esitazioni, agiscono puntuali, tempestivi, seguendo il faro mirabile della giustizia, da loro istintivamente percepita. Quindi non c’è da stupirsi se l’irascibile Donovan Murdock, protagonista di questo folle cartoon, al momento in cui lancia in aria quell’oggetto stranamente tintinnante, la sua scelta l’ha già fatta: “Chi tocca muore!” La fibbia cranio-forme, la mascella tagliata con l’accetta, i muscoli (superiori) di uno stritolatore: perché parlare? Ogni tetro passo, condotto tramite le piccole gambette, esprime un senso di minaccia. Costui, fra tutti, è l’allegoria più eloquente del concetto di machismo. Come Chuck Norris, che posto di fronte ai suoi nemici pare sempre dire “Tu? Con quale armata?” Il problema però, in questo specifico caso, è l’ambiente circostante. Donovan si trova in un luogo molto particolare, riconoscibile dall’atmosfera e alcuni aspetti di design. Quella serranda, quegli scatoloni…Non c’è dubbio: siamo nel vicolo d’inizio di un grande classico dei videogame. Il primo quadro di DOUBLE DRAGON. Guai, a chi dovesse mostrare la sua cara moneta in tal contesto, tirandola fuori dalla tasca. Stregoni, picchiatori, astronavi, draghi, orchi, aquile… L’armata dei nemici videoludici, gli eterni fagocitatori di gettoni, è già in agguato. Tempo di menar le mani! Fra splendidi effetti speciali, trasformazioni e scene apocalittiche degne del più moderno Adventure Time.
In questo video COIN dei talentuosi Exit73Studios, io ci vedo la perfetta riproduzione dello spirito dei primi videogame, anche, soprattutto a discapito delle minuzie. Quei giochi non sceglievano, intenzionalmente, di essere primitivi. Erano quanto di meglio potesse esistere, il non plus ultra, coronamento di lunghi anni di sviluppo tecnologico. Ricreandoli come davvero erano, gli si fa un dispetto, perché nessuno li guardava ad occhio nudo. Si usava la più strana delle lenti: quella della fantasia.
L’oro, per loro. Non per noi, per loro. A molti sarà capitato, fra gli anni ’80 e ’90, di sentirsi chiedere da un parente o da un amico tradizionalista, niente affatto esperto in videogiochi: “Almeno, oggi hai vinto qualche cosa?” Incomprensibile, bizzarro era il concetto che si potesse entrare in un bar, riversare dozzine di gettoni dentro alla macchinetta e tornare sempre, invariabilmente, a mani vuote. La sala giochi era nell’immaginario collettivo ancora quella dei casinò di Las Vegas, l’antonomasia del regno dell’azzardo. E il neonato campo videoludico correva parallelo, con una sola fondamentale differenza. Ovvero che non si vinceva… Proprio MAI! Questo aspetto ormai, a molti di coloro che realizzano gli odierni blockbuster da 300 milioni e passa di dollari, non è forse tanto chiaro. Nel videogioco puro, quello del joystick e dei quattro pulsantoni, non c’era l’idea che il “fruitore” (l’acquirente) dovesse ricevere un compenso per il suo tempo, per l’interesse dimostrato; una volta inserito quel gettone, l’avevi perso. L’unica variabile era il tempo. Quanto duravi, contro gli alieni Space Invaders. Il numero di palline mangiate, prima dell’indigestione. I malviventi malmenati, le righe di cubi smaterializzate… Alla fine, tanto, ogni singola città di Missile Command bruciava, tutti gli omini di Defender venivano rapiti e così via. Quell’aureo gettone valeva soltanto quanto la tua vita. Anzi, tre vite, il più delle volte. Oggi hai speso… 15 euro? Avrai esattamente 4, 5 ore di divertimento. 50, 60 euro? tra le sedici e venti ore, all’incirca, viene considerato il giusto. Ogni Game Over è male accetto. E se nei giochi degli anni post-duemila, fatti di esperienze cinematiche, contenuti pre-masticati, trame bizantine e focus testing, si sta perdendo questa strada del mettersi alla prova, è perché, tanto spesso, la nostalgia è il più superficiale, istintivo dei sentimenti umani. Ci si cura delle inezie, perdendo il quadro generale.
Basta guardare certe retrospettive, lo stile grafico dei cosiddetti retrogame. Pixel enormi, riferimenti grossolani, crossover telefonati e martellanti. Le generazioni degli 8 e 16 bit, diventate un unico ammasso poco chiaro, che vengono rappresentate con quel determinato tipo di personaggio, certi effetti sonori e valori produttivi di poco conto, dato che, ovviamente, “Ancora l’industria non esisteva”. I creativi, quelli si, c’erano. E il talento dei singoli individui, forse molto più di ora. Quei tempi e quei personaggi torneranno, prima o poi. Purché si smetta, ingenuamente, di paragonarci a loro.