L’arma simbolo della cavalleria d’acciaio

Si dice che la katana sia l’anima del samurai e questo è probabilmente il motivo per cui anche i mecha ne portano una. La chiave di lettura di questa affermazione deve partire dal presupposto che la spada giapponese sia prima di tutto un concetto immateriale, lo strumento che il guerriero utilizza per riconoscere la propria Via; non certo unicamente, o principalmente, una semplice arma.
Il più rappresentativo degli oggetti giapponesi è rimasto sostanzialmente invariato per una buona parte dell’ultimo millennio. Lama adatta a colpire di taglio da cavallo, perenne memento delle origini nomadiche del popolo di Yamato. Forgiata ad oltre 800 gradi secondo un procedimento segreto e leggendario, costituita da numerosi strati di acciaio più o meno carbonifero, incredibilmente durevole ed affilata. Veniva portata nel fodero con la lama rivolta verso l’alto, sempre pronta ad una rapida e letale estrazione. Non era un’arma che si prestasse a duelli di lunga durata: il Bushidō ha sempre codificato scontri rapidi e definitivi, non la sopravvivenza grazie ad espedienti protettivi come l’usbergo, l’elmo o lo scudo. Eppure, un samurai in equipaggiamento completo indossa armature impressionanti, spettacolari copricapi cornuti, alati, sormontati da castelli, draghi, mostri. Indossa maschere demoniache, porta armi sproporzionate e gigantesche… Si potrebbe quasi dire che nel momento in cui il kami (dio) della guerra si risvegliava al suono dei tamburi taikō la sua furia ed il suo spirito combattivo dessero forma materiale a schiere di creature terrificanti ed inumane, in grado di mettere in fuga un nemico impressionabile senza bisogno di combattere una sola battaglia.
Un mecha d’altra parte, secondo il significato ormai internazionale del termine, è un possente robot guerriero, generalmente giapponese. Può essere di origini mistiche o tecnologiche, disporre di risorse supereroistiche o militarmente credibili, talvolta è quasi indistruttibile e qualche altra in poco tempo finisce persino le munizioni, ma una cosa è certa: è un moderno samurai in armatura ed in ultima analisi ha sempre una sua katana, qualunque siano le caratteristiche e l’aspetto di quest’ultima.

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La terra dei draghi di basalto

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Monster Hunter è tra le più terribili rappresentazioni digitali del conflitto tra uomo e natura. Nato nel 2004 in Giappone, allo scopo di fornire una proposta online di action/rpg su Playstation 2, si è presto costruito una base di estimatori grazie alle singolari meccaniche di progressione del giocatore, al design artistico delle creature ed al livello di sfida tanto elevato quanto appassionante.  La storia di questa serie rispecchia un cambio di prospettiva importante nella concezione del gaming portatile in Giappone, e forse per la prima volta consente alla PSP di Sony di proporsi come valida alternativa ai prodotti Nintendo.

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BlazBlue vs. King of Fighters XII

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Il post-modernismo è un canone espressivo che sembrerebbe ancora ben lontano dai videogame di azione. In un ambito dominato dall’aspetto tecnologico e visuale, con giochi tesi massimamente ad utilizzare l’ultimo engine tridimensionale o le innovazioni più significative di gameplay ed interattività, difficilmente può trovare posto la reinterpretazione soggettiva di modelli ed idee. Sulla base di meccaniche immutabili ed apparentemente comuni, il picchiaduro bidimensionale è quanto di più vicino ad un filo conduttore ininterrotto possa trovarsi in questa sotto-classe di videogiochi,  spesso affiancato ma mai sostituito dalla sua naturale evoluzione in  3D. Quest’estate, tra luglio ed agosto, il mondo occidentale riceve finalmente l’adattamento di due giochi simili per gameplay e nel loro approccio tradizionalista: l’uno costituisce innovativa chiave di lettura di una serie decennale e largamente affermata, mentre l’altro  viene direttamente dagli autori di Guilty Gear, coloro che hanno saputo portare mostri, demoni e creature bizzarre dove prima trovavano posto unicamente guerrieri ed esperti di arti marziali.

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Sorgente e Motore

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Nell’industria dei videogames è fortemente diffusa la tendenza a ricercare standard produttivi che possano raggiungere il successo commerciale senza passare necessariamente per la creatività. Lavorando con un mezzo espressivo derivante dalle applicazioni non convenzionali di un mezzo da lavoro, il computer,  non è raro che i game designer giungano all’opera compiuta basandosi più sulla tecnologia innovativa che su di una visione di artista o un reale desiderio di far conoscere le loro idee.

Oggi siamo arrivati ad avere una divisione in generi generalmente ben delineata, non più tanto condizionata dal ruolo del giocatore o delle caratteristiche delle situazioni rappresentate nel gioco, quanto basata sulla primaria risorsa software del motore grafico. Negli action game ad esempio, tradizionalmente ripartiti tra le due sotto-classi di platform game e sparatutto, abbiamo oggi FPS, 3rd person action adventures o free-roamers-GTA like. Siamo così passati da una nomenclatura con classificazione descrittiva del processo di gioco (salta e corri, spara ed abbatti i nemici) ad una tecnocentrica: abbiamo un motore grafico orientato, nell’ordine alla gestione dell’intelligenza artificiale ed ai dettagli degli ambienti ; oppure alla varietà di situazioni ed all’adattabilità del protagonista ; o ancora agli elementi di contorno e ad alla libertà di movimento. Ci sono così compagnie di sviluppatori, come la Epic con l’Unreal Engine o i Criterion con il Renderware, che hanno conseguito la loro fortuna creando e vendendo licenze del codice sorgente di un solo engine grafico. O altre ancora, come la Valve con il Source, che ne hanno identificato la natura con la loro intera produzione, piattaforma di distribuzione ed originale concezione dei videogames.

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