La grandezza è un concetto relativo. Ma vi sono esseri, concetti o situazioni che riescono a creare il senso inusitato delle proporzioni. Stimolare l’inerente percezioni della propria posizione nell’asse ideale, ove si dipanano le differenti dimensioni di tutte le cose. Quello perseguito con innegabile successo, e vincolato ad un eclettico cumulo di legno e lastre di stagno, dall’inventore e speculatore immobiliare James V. Lafferty, di quella che veniva un tempo definita “South” Atlantic City. E molti sono i cambiamenti, oggettivamente parlando, intercorsi da quel distante 1882, incluso il nome cittadino che oggi recita: Margate City. Ma chi cercasse con lo sguardo tale opera zoomorfa, dovrà solo rivolgerlo ad un centinaio di metri verso il mare. Ove lo svettante pachiderma, ancora oggi pacificamente, osserva.
Stolido dinnanzi al traffico di automobili moderne. All’arrivo e la partenza dei velivoli nel vicino aeroporto. Allo scatto fotografico ed eternamente reiterato di milioni di turisti armati di telefono cellulare… Poiché Lucy, come venne anch’esso ribattezzato attorno ai primi del Novecento, è sostanzialmente un edificio che rispecchia meramente ciò che il popolo decide di vederci ogni volta. E non giudica, più di quanto possa farlo il peso un paio di affilate zanne ricurve. Dettaglio interessante: poiché la creazione pseudo-scultorea in questione, per le proporzioni anatomiche ed il chiaro intento del suo creatore, voleva essere un maschio d’elefante asiatico proveniente dall’India. Ma l’immaginazione di chi osserva e definisce la realtà, raramente accetta di essere intrappolata all’interno di strutture imposte nei momenti pregressi. Allo stesso modo in cui il palazzo in questione, dell’altezza di 19,7 metri, ha saputo costituire nel corso della propria esistenza un esempio variabile di molte cose distinte. A partire da specchietto per le allodole, ovvero luogo ed ufficio dal cui tetto trovarsi ad osservare di volta in volta i lotti costruiti dal suo creatore; provando tutto il senso di stupore e meraviglia, che un possibile futuro abitante della “Las Vegas della Costa Est” avrebbe voluto provare nel momento in cui la propria vita si trovava in quel bivio. Tetto sovrastato, per inciso, da un valido esempio di howdah, la struttura castelliforme certe volte utilizzata come cabina di trasporto e “controllo” di questo genere di pachidermi. Espressione ben visibile di un costrutto in cui nessuno spazio, alcun tipo di recesso anatomico, sembravano essere andati sprecati. Dalle scale a chiocciola nelle zampe posteriori alla grande sala “gastrica”, dipinta di rosa nelle sue pareti interne al fine di evocare il senso di uno stomaco di elefante. Passando per le 22 finestre disposte strategicamente, di cui due in corrispondenza degli occhi ed una, più grande, sotto la coda dell’imponente animale affetto da cronico immobilismo. Persino la proboscide, saldamente immersa nel pilastro che assomiglia ad un semplice secchio d’acqua, è portante! Affinché nulla, niente o nessuno, potesse ledere a quella che in molti considerano la prima e più importante roadside attraction (calamita oculare per automobilisti) di tutti gli Stati Uniti nordamericani…
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La vibrante danza sulle foglie delle piccoli alci volanti americane
La lunga schiera degli artropodi è popolata di straordinarie configurazioni morfologiche, frutto dell’evoluzione verso ciò che funzionando, appaga anche l’estetica della filosofia del mondo. Presenze come la libellula aggraziata, che perlustra l’area sopra gli umidi bacini paludosi; oppure il ragno silenzioso, intento a deambulare, stolido funambolo, sul serico prodotto delle proprie ghiandole costruttrici. Ma la più incredibile di tutte le minute bestie, a ben vedere, può essere soltanto la mosca: agile, precisa volatrice, in grado di capire l’avvicinamento dei pericoli ben prima che questi ultimi riescano ad imporsi sul suo destino. Perfetta convergenza di saggezza, ottimi riflessi, muscoli potenti collegati a forme aerodinamiche degne dell’Era Spaziale. La tipica eccezione che conferma la regola? Poiché nera e pelosa, ella non è propriamente la tipica vincitrice dei concorsi di bellezza. Se è vero che spiccando in campo bianco, sopra i nostri muri, evoca un senso di mefistofelica incombenza, il simbolo satanico di chi ha vissuto molto poco, eppure sembra ben conoscere gli angoli meno raccomandabili dell’immanente lerciume del mondo. Esci tuttavia da questi ambienti innaturali, ed ella ridiventa un singolo punto in movimento, null’altro che il padrone dell’aria e del vento. Soprattutto se appartiene a specie non del tutto conformi, come le rappresentanti del genere cosmopolita Musca o la più diversificata famiglia delle tachinidi nordamericane. Ecco, dunque, una valida alternativa in quello stesso ambiente, e non solo: le pallopteridi o mosche “sventolanti” (flutter fly) così chiamate per il movimento che ripetono costantemente gli esemplari adulti soprattutto se di sesso maschile, agitando su e giù le proprie forti e distintive ali. Caratteristiche perché, osservandole di getto, sembrano piuttosto le strutture cornee di un riconoscibile ungulato, il cui lungo e bulboso naso è stato per molteplici generazioni l’emblema del vasto Canada. Benché possa sconfinare agevolmente oltre il confine statunitense, poiché gli alci non conoscono il concetto di “nazione”, così come innumerevoli cugine della specie qui mostrata, la Toxonevra superba (in tassonomia, il latinismo T. è sinonimo di Pallopteridae) compaiono nell’intera zona paleartica, dalle Americhe all’Europa, fino all’Asia e persino in Estremo Oriente. Benché siano ragionevolmente, nell’intero estendersi di questo vasto areale, piuttosto rare, venendo chiamate in vari luoghi con il termine generico di mosche dipinte, quando anche possiedono un nome comune nella lingua locale. Ed è questa in termini più semplici, la ragione stessa della loro singolare essenza; poiché la forma di queste ali non ha niente di diverso, in verità. Esse sono meramente, trasparenti per una percentuale significativa della loro piccola estensione. Mentre per il resto ricoperte da un cupo pigmento che riesce a dare forma a quel disegno muggente. Eppure ronzano, tranquillamente, in mezzo all’aere delle circostanze latenti…
Raro soliloquio della torre che imperterrita resiste al grande corso del fiume Volga
Da lungo tempo è il simbolo della piccola città di Kalyazin, situata nella regione di Tver nella Regione Centrale della Federazione Russa. E viene da pensare che se tutto fosse andato come da programma, il grande monastero della Trinità e chiesa di San Nicola costruito inizialmente nel 1694, non sarebbe stato altro che una parte relativamente anonima del vasto patrimonio storico e culturale di queste popolazioni inclini a rendere del tutto manifesta la propria fede in Dio. Costruendo tramite collette, spesso coadiuvati dalla nobiltà locale, vasti luoghi di culto e dichiarando tramite proclami di “Ricostruirli nelle epoche future, se un qualche tipo di disastro o evento bellico dovesse portare alla caduta di queste mura.” Visione assai difficile da perseguire in questo caso costruito sotto l’egida del margravio Makariy Kalyazinsky, visto come il fiume stesso, presso le cui rive campeggiava, sia stato intenzionalmente fatto tracimare nel 1939, su ordine specifico di Joseph Stalin e con l’obiettivo di formare il bacino con diga idroelettrica di Uglich, a discapito di un vasto tratto di territorio antistante. Lasciando che questa espressione di un’originale intento architettonico celebrativo, assieme a 530 case, la Chiesa di Giovanni Battista, la Chiesa della Natività, la Chiesa del Cimitero della Santa Croce e altre, così come grandi gallerie commerciali, andassero letteralmente sommerse con buona pace di chi credeva che il comunismo e la religione ortodossa potessero collaborare nell’accrescimento della società contemporanea. Se non che qualcosa d’incredibile, si poteva dire addirittura un miracolo, si sarebbe presentato in quell’infausto culmine del gran disastro agli occhi dei fedeli raccolti nelle proprie preghiere notturne. Quando al sorgere del nuovo sole, un’ombra ebbe ragione di trovarsi proiettata sulle acque splendenti di un tale increspato oceano lineare: era quella della torre in stile classicista (che si rifaceva all’epoca antecedente a Pietro il Grande) così costruita nel 1796-1800, al fine di costituire il campanile del monastero. Un elegante edificio dell’altezza di 74,5 metri, grosso modo equivalente ad un palazzo di 22 piani, che adesso campeggiava in assoluta solitudine, alla maniera di una torre magica sopravvissuta all’inondazione del continente atlantideo. Il che in linea di principio non era COSÌ strano, giusto? Dopo tutto lo slargo fluviale in questione aveva una profondità di 5 metri in buona parte della sua estensione, appena sufficiente a ricoprire una metà del primo piano dell’aguzzo punto di riferimento. Se non che il resto del complesso, come negli altri luoghi soggetti a un comparabile destino, era stato preventivamente demolito dai genieri dell’Armata Rossa in qualità di odiato simbolo del potere imperiale, oltre al preciso intento di facilitare la navigazione. E non ci volle poi tanto a lungo, a questo punto, perché le guide turistiche cominciassero a proporre una lunga serie d’ipotesi su cosa, effettivamente, avesse contribuito al salvataggio di un simbolo tanto ingombrante…
La creazione bellica che dimostrò al mondo il vantaggio tattico della mitragliatrice
Lo sforzo francese nel resistere alla contro-invasione prussiana del generale Moltke nel 1870-71 fu in larga parte condannata da principio. Troppo largo era il divario, rispetto all’epoca Napoleonica, in termini di leadership, capacità logistiche, organizzazione tattica e militare. Per non parlare del devastante assedio, in termini psicologici e amministrativi, della capitale parigina. Questo conflitto per ottenere la posizione di predominio in Europa fu tuttavia anche un confronto sul piano tecnologico, con gli eccellenti fucili dotati di percussore ad ago di Johann Nikolaus von Dreyse capaci di dimostrarsi superiori, per cadenza e portata di fuoco, ai pur moderni e temibili Chassepot con otturatore dalla guarnizione in gomma. Ci furono tuttavia dei singoli momenti, nel progredire della guerra durata un solo anno, in cui la nazione sorta dalle ceneri rivoluzionarie parve trovarsi in vantaggio, soprattutto grazie a specifici accorgimenti nelle proprie dottrine operative, in buona parte dovuti all’apertura mentale di Napoleone III. Appassionato teorico dell’artiglieria, sul cui tema aveva anche redatto un manuale (non per niente, proprio a suo zio paterno viene attribuito il detto: “Dio è dalla parte del comandante con i cannoni migliori”) si dice sia stato proprio lui, a colloquio con l’ingegnere belga Joseph Montigny, ad aprire la strada per l’adozione di un’innovativa tipologia d’arma, che era stata creata con ben 10 anni d’anticipo rispetto all’iconica mitragliatrice di Richard Jordan Gatling. E quando i soldati della confederazione sotto il comando dei teutoni marciarono il 18 agosto 1870 a Gravelotte, essendo riusciti a sorprendere i corpi d’esplorazione francese, andarono incontro a un’amara sorpresa. Pur avendo cura di mantenersi oltre la portata dei fucili nemici, e soprattutto dei loro pericolosi cannoni caricati a mitraglia, essi si ritrovarono improvvisamente sotto il fuoco di una letterale pioggia di proiettili. Scagliati in micidiali rosette di 30-40 nugoli capaci di trafiggere, letteralmente una formazione di fanteria in assetto di battaglia. Gli uomini caddero allora come mosche, uno dopo l’altro, e venne registrata alle cronache un’amara sconfitta, dal costo in termini di vite umane calcolato attorno ai 20.000 tedeschi, contro poco meno della metà tra i loro agguerriti avversari. Qualcosa di molto importante si era verificato in quel momento storico: un’armata moderna aveva, finalmente, scoperto l’importanza del volume, anche a discapito del calibro, delle proprie inamovibili bocche da fuoco.
E non c’è davvero molto da biasimare, se fino a quel momento i cosiddetti Canon à balles o Mitrailleuse fossero stati utilizzati a sproposito, venendo schierati in mezzo a pezzi di un tipo e munizionamento convenzionale, trovandosi conseguentemente troppo lontani per poter avere un effetto considerevole sull’andamento della battaglia. Essi pesavano, dopo tutto, un minimo di 600-700 Kg, cui si aggiungeva l’ulteriore carico significativo dell’affusto dotato di ruote, mantenendoli ben lontani dalla necessaria maneggevolezza delle attuali armi di supporto all’interdizione delle zone di fuoco. Lo stesso concetto di mantenere un flusso di fuoco continuo, come sarebbe diventato possibile soltanto in seguito grazie ai progressi in campo meccanico, appariva allora come un sogno irrealizzabile. Mentre l’apparato in questione sparava i propri colpi tutti assieme, o in alternativa con una rapidità governata dal movimento della manovella di controllo, per poi richiedere un lungo periodo di ricarica all’esaurirsi delle 25-50 canne in parallelo all’interno del cilindro metallico di contenimento. Ma l’effetto in termini di potere di arresto, quando tutte le circostanze si allineavano opportunamente, era decisamente difficile da sopravvalutare…