La vita domestica di una serpe a due teste

Medusa

Faceva buio nel carrozzone, in mezzo ai terrari e le gabbie d’insetti e farfalle colorate. L’intera nuova generazione degli abitanti di un piccolo paese del Midwest, un gruppo di ragazzini fra i 10 e 15 anni, si assiepò insistentemente di fronte a un telo azzurro cielo, lo sguardo pieno d’entusiastica aspettativa. Il richiamo rivolto alla loro fantasia, pochi minuti prima, era stato semplicemente irresistibile “…Venghino, lorSignori, per poter assistere allo spettacolo indimenticabile di una creatura d’altri tempi…” Il vice-capo dei giostrai, con la sua giacca elegante e il cappello alto fabbricato a New York, sapeva bene come suscitare la curiosità del suo pubblico imbelle. Prelevato qualche dollaro a persona, trasportato il giovane gruppo di visitatori all’interno del Mistico Rettilario Viaggiante, stava già intavolando la seconda strofa del collaudato discorso. “…Anfesibena! Il mitico serpente staccatosi dalla chioma di Medusa, il cui sguardo pietrificava gli stolti, temuto dai greci e dai latini. Due menti che dormono, a turno, in un solo corpo condiviso, per questo perennemente pronto a ghermire la sua preda…” Jimmy, Terry e gli tutti altri sapevano che doveva esserci la fregatura. Non esistono bestie a due teste, giusto? L’uomo bizzarro continuò a parlare ancora e ancora, come se in effetti non avesse alcunché da mostrare. Poi, un lampo di luce: i riflettori focalizzati d’improvviso sopra il telo, immediatamente rimosso. “…Mirabile bestia! Davvero terribile!”. Il tempo pareva essersi fermato. Sibilante e infastidita, la serpe scrutava la piccola folla con due paia di occhi allo stesso tempo, facendo saettare a turno la coppia di rapide lingue rosso-fragola. Spostando gli occhi sbarrati dall’emozione verso l’altra estremità del suo corpo, la verità apparve chiara: spuntava una coda soltanto. Per fortuna, la parte sullo sguardo mortifero non trovò immediata riconferma, almeno quella singola volta.

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Come correvano i cannoni d’Inghilterra

Royal Field Gun Race

Il concetto della competizione sportiva come una fonte di pura soddisfazione intellettuale è un’invenzione piuttosto recente, che nasce dalle garanzie di un mondo benestante, industriale e moderno. Persino adesso, sui campi delle Olimpiadi estive e invernali, si respira un’aria tutt’altro che pacifica, con frecce volanti, fucili squillanti, giavellotti spiraleggianti ed altri implementi similari, che soltanto in tempi molto recenti hanno perso una buona parte delle loro connotazioni naturalmente guerrafondaie e deleterie, surclassati da nuove, più letali tecnologie. C’è però la tradizione secolare di uno sport praticato unicamente dalla Royal Navy, la marina militare inglese, in cui la preparazione atletica dei partecipanti trova la sua applicazione in un contesto ancor più strettamente legato alle guerre di oggi, proprio perché nato negli anni turbolenti di un’epoca, e una sfortunata regione geografica, che ancora risuona dell’eco dei colpi dell’artiglieria. Praticamente, quelli erano gli stessi cannoni che qui rivediamo, in un video del 1997, trasportati a spalla da due gruppi di soldati, nel tentativo di guadagnarsi l’ambìto premio di un modellino in bronzo, commemorazione di una delle battaglie più famose della storia britannica moderna. La statuetta in questione rappresentava una squadra di marinai al momento dello sbarco dalle navi HMS (Her Majesty’s Service) Terrible e Powerful sulle coste del Sudafrica, a 1500 Km circa da Città del Capo, nel 1899. Furono loro che, seguendo un ordine quasi impossibile dell’allora capitano Percy Scott, smontarono 6 potenti cannoni navali per portarli lungo un tragitto accidentato, oltre aspre colline e fin sulle mura di una città assediata. E salvarono la situazione.
L’episodio si svolse a Ladysmith, un importante centro abitato sito fra le due Repubbliche Indipendenti Boere, fondate dai pionieri e dagli agricoltori, detti afrikaner, che si erano imbarcati per cercare fortuna all’altro capo del mondo. Come ogni altro luogo remoto di quel particolare frangente storico, però, apparteneva, almeno in teoria, anche ad un’altra giurisdizione: quella dello sconfinato impero della regina Vittoria d’Inghilterra, fondato sulla certezza di uno stato di diritto imprescindibile e assoluto. La cui marina era talmente forte da poter cancellare il detto “Tra il dire e il fare…” Tranne che in un caso: quando in mezzo alle due cose, come a volte inevitabilmente capita, non c’era il mare, ma il suolo.

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200.000 micropittori per un solo quadro

John Knut

“La tua spazzatura è il mio tesoro, i tuoi scarti un pranzo da re.” Questo dice la mosca, paria fra gli insetti, indegno essere che insidia i giardini e le case di noi esseri umani. Nessuna è più odiata di lei, tranne forse la zanzara. La scura mangiatrice delle cose morte, nonostante tutto, svolge il suo compito con diligenza e un profondo gusto esistenziale, rigurgita e consuma, rigurgita e consuma. Quanto spesso compare la mosca in un quadro? Non abbastanza. L’arte che ricerca il bello non potrà mai esaltare questo insetto, orribile nella sua utilità. Ora buzz-ta, sembrano dire miliardi di piccole voci, da oggi buzz-tiamo a noi stesse. La ronzante ribellione inizia da una scatola, sopra un tavolo, dentro uno studio a Los Angeles in California, per il tramite dell’artista moderno di Minneapolis, John Knut. Nella scatola ci sono ben 200.000 larve brulicanti, sul tavolo un barattolo pieno di zucchero e… Pigmenti colorati. L’artista amico delle mosche è infatti venuto a conoscenza, durante un periodo d’interessamento verso le malattie trasmesse ad opera degli insetti, di come gli appartenenti all’ordine dei ditteri siano soliti rigettare una buona parte di tutto ciò che ingeriscono, spandendo germi e batteri su tutte le superfici con cui vengono inevitabilmente a contatto. Da ciò nasce il suo strano esperimento: lasciare che da piccole si riempiano di cibo iridato, per poi metterle tutte fra un vetro e una tela, candidamente pronta ad accogliere lo splendido arcobaleno dei loro succhi gastrici alterati. Nel giorno dell’epico sfarfallamento, spiccando per la prima volta il volo, il popolo ronzante avrebbe finalmente avuto un suo racconto pittorico d’elezione. Così nascono questi quadri, pattern randomizzati di macchie indistinte senza significato, di per se stessi molto difficili da interpretare, quasi fini a se stessi. Su di loro aleggia lo spettro del pointillismo, però accidentalmente riprodotto attraverso i meccanismi del caos. Eppure, ciascuno è un pezzo unico per definizione, nato dall’incontro fra migliaia di singoli individui. La risposta, da noi lungamente attesa, della mosca. Per anni gli abbiamo donato rifiuti, adesso ci rendono un abbondante biascicamento. Grazie, care piccole buzz-tiole.

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Egitto: catturato il facsimile del volto umano

snapperstech

Il motion capture è un ambito dalle profonde implicazioni filosofiche che si pone al servizio dell’arte drammaturgica, modificando il ruolo dell’attore grazie all’impiego della tecnologia. Oltre il tramite dell’immaginazione, scavalcando i presupposti autorali di un testo recitativo, permette la traduzione di gesti analogici in sequenze ordinate, l’estrapolazione dei sentimenti attraverso lunghe tabelle di numeri e assiomi logaritmici. E poi, trasferiti questi valori all’interno di un contesto digitale, favorisce la simulazione realistica dei personaggi di una storia, non sempre umani. Anche per tale motivo le più recenti evoluzioni in questo campo, giorno dopo giorno, sembrano avvicinarci sempre di più a forme espressive relativamente nuove, quali l’animazione computerizzata e il videogame. Evoluzioni davvero significative, come il prototipo dimostrato in questo video dagli egiziani della Snappers Systems, ultima espressione di un’immagine web ancora non del tutto definita. Yasser El-Sherbiny, fondatore della compagnia, assume a comando una vasta gamma di espressioni; oltre l’invalicabile muro di uno schermo a cristalli liquidi, il suo doppelgänger, opera dell’artista Galal Mohey, le riproduce senza nessuna misura d’esitazione. E talmente fluida è la sequenza, così precisa e naturale, che dopo qualche minuto non si capisce più chi stia imitando l’altro.

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