Milioni di facce sepolte sotto un guscio friabile ma saldo. La membrana che pur camminandoci tendiamo a definire “crosta”, quasi a sottolineare come sia soltanto un velo dietro il quale nulla è ciò che sembra, ma ogni cosa latita in un complicato caos di effetti reciprocamente agevolati: fuoco, fiamme, impermanenza delle forme. Per sempre sepolte, ma mai realmente sopite. Eppure, qualche volta, risvegliate. Poiché non è forse questo il senso di un dinamico quanto compatto promontorio? Che compare sollevandosi, nel giro di una quantità variabile di anni? Per svettare come nulla fosse, unico punto di riferimento, negli spazi senza tronchi e senza rocce dell’eterno permafrost del grande Nord… Oh, dirà il geologo tra il pubblico di questa introduzione. Sussistono creazioni come queste. Grazie a insoliti processi che potremmo facilmente mettere a confronto con il vulcanismo… Pur trovandosi all’estremo opposto di quel nucleo fiammeggiante che brucia l’anima e le mani. Un frutto freddo, se vogliamo. Ma non per questo, meno interessante o rappresentativo di quell’iter proceduralmente perpetrato che orgogliosamente definiamo, tra noi stessi ed a vantaggio d’ipotetiche creature, terrestre.
Eppure molto poco in termini di approccio scientifico, tralasciando la spiegazione di massima e un accenno di concause collegate al mutamento climatico di cui possono costituire l’indicatore, gravita attorno a queste insolite collinette, capaci di raggiungere i 70 metri di altezza ed i 1.000 di diametro, tradizionalmente utilizzate dagli Inuvialuit (o Inuktuk settentrionali) del continente americano per orientarsi. Soprattutto presso la penisola canadese di Tuktoyaktuk con il suo celebre Monumento Nazionale dei Pingo, ove ne sorgono all’incirca 1.350 in buona parte ben differenziati tra loro, incluso il secondo più alto del mondo, l’Ibyuk di 49 metri (il suo fratello maggiore si chiama Kadleroshilik ed è situato in Alaska, raggiungendone i 54). Gobbe di un cammello senza tempo e senza nome, ricoperto da una verdeggiante pelliccia erbosa. Simboli di vita dunque, che racchiudono all’interno e ben nascosto un simbolo di morte, il bianco gelo stretto in una morsa che non può conoscere alcun tipo di quartiere. Per il modo stesso in cui tali strutture tendono a manifestarsi, unicamente in luoghi dove il gelo è un’implacabile stato dei fatti. E in luoghi segreti, esso si concentra in modo ancor più ferreo in un possente pugno che attraverso decadi, se non singoli anni, può bucare e fuoriuscire dal terreno che appariva precedentemente privo disturbi nello stato del paesaggio esistente. Da che l’appellativo preso in prestito dal greco di “idrolaccolite”, idro- “acqua” e lakkos (cavità) + lithos (pietra). Il che costituisce se vogliamo un’eccessiva semplificazione o mera antonomasia. Laddove il pingo è fatto per lo più di ghiaccio, avvolto nella terra che riesce a nasconderlo eccellentemente. Senza che la pietra entri necessariamente, o frequentemente, nell’equazione…
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Tecnologie perdute americane: la singolare armatura degli irochesi
Ferocia, senso pratico e attenzione ai dettagli. L’aspetto del guerriero armato di arco e lancia che si aggira in mezzo ai tronchi del bosco è quello di un solido baluardo. Con l’alto cimiero ornato di una composizione di foglie, la corazza in legno solido ed un paio di rigidi parastinchi. Un grande scudo, articolato e flessibile, disposto in modo tale da proteggergli la schiena e le spalle. Lungi dall’essere una figura mitica o meramente immaginaria, egli è in effetti Malcolm Kahyonhakonh Powless-Lynes, archeologo sperimentale nonché discendente dell’antico popolo degli Haudenosaunee, a tratti saldi o disuniti, al punto da essere riusciti a perfezionare già molto prima dell’arrivo dei bianchi un particolare approccio ai problemi della vita non sempre tranquilla. E così contrariamente a ciò che si potrebbe essere inclini ad azzardare, egli non sta rievocando un qualche tipo di costume bellico appartenente alle genti Sumere o Babilonesi. Bensì un tipo di soluzione, oggi poco nota, utilizzata fino a quattro secoli prima di adesso tra i confini volubili di quelle terre.
Poiché alla fine indipendentemente dal proprio contesto culturale, l’essere umano è una creatura con due gambe, due braccia, una testa ed il comparto sensoriale che tende a derivarne. Per quale ragione dunque le metodologie impiegate al fine di risolvere i conflitti armati, scatenati da un vasto ventaglio di diversità d’opinioni, dovrebbero essere fondamentalmente diverse tra società di livello tecnologico ed organizzazione sociale simile? Come l’America precolombiana e l’Europa dell’Età della Pietra o del Bronzo (fatta eccezione, s’intende, per il bronzo. Che soltanto gli Aztechi avevano compreso oltreoceano e ad ogni modo, utilizzavano soltanto a scopo decorativo). Laddove esiste soprattutto in merito alle genti del settentrione degli odierni Stati Uniti e Canada, lo stereotipo del selvaggio seminudo con arco e frecce, che utilizzando tecniche di guerriglia balza fuori dai cespugli o si precipita da luoghi sopraelevati. Assaltando coraggiosamente il convoglio o la diligenza, mentre emette grida disarticolate senza nessun tipo di disciplina. Una visione chiaramente alimentata dal cinema hollywoodiano, che al tempo stesso trovava una corrispondenza pratica a partire da un particolare momento storico, quando i coloni inglesi, francesi e spagnoli cominciarono a calcare queste terre. Con una ragione pratica chiaramente identificabile: ciascuno di loro poteva, almeno in linea di principio, essere dotato di armi da fuoco. E a cosa servivano una precisa formazione di battaglia, una catena di comando, ufficiali ed eroi, di fronte alla morte improvvisa e incontrovertibile, consegnata al rombo di un bastone magico assassino? L’occasione d’altra parte di osservare una comunità organizzata di nativi che ne combatteva un’altra sarebbe notoriamente giunta verso la fine del XVII secolo, quando il delicato equilibrio nell’amministrazione territoriale, ed in particolare il commercio del pellame gestito dalla confederazione di tribù Irochesi ed i loro vicini, la nazione degli Uroni-Wendant, venne alterata da fattori esterni. Portando almeno nelle primissime battute al più recente, e nei fatti l’ultimo, grande conflitto tra popolazioni nordamericane ragionevolmente indipendenti. Ne parlò estensivamente nelle sue memorie di viaggio il navigatore, cartografo, esploratore e futuro governatore de facto della Nuova Francia, Samuel de Champlain (1567-1635) raccolte in modo particolare nel celebre volume Voyages et Découvertes del 1619, redatto su mandato parzialmente esplicito di Re Luigi XIII in persona. Un testo dalla monumentale importanza proprio perché le due fazioni oggetto di un simile approfondimento, per quanto avanzate dal punto di vista organizzativo, non padroneggiarono mai l’uso della scrittura essendosi piuttosto affidate per millenni alla cronologia tramandata oralmente dei loro saggi detentori della conoscenza. Un metodo il quale, per quanto ben collaudato, tendeva inevitabilmente a lasciar sfumare tutto quello che non aveva più un’impiego pratico evidente…
L’uomo che seppe accompagnare una giraffa nel celeste impero dei Ming
C’erano naturalmente molti privilegi speciali nell’essere un favorito dell’Imperatore Yongle, fin dall’epoca in cui era soltanto un principe in esilio, intento a guerreggiare con il nipote. Soprattutto per colui il quale, tra molti, aveva condotto alla vittoria quegli eserciti nella feroce battaglia per Nanchino, in seguito alla quale, dimostrata la vulnerabilità all’artiglieria del palazzo reale sito nei suoi quartieri centrali, il sovrano del Regno di Mezzo aveva deciso di tornare nella città che era stata il suo feudo, Pechino. E lì far costruire un complesso d’edifici, cinto da una muraglia interna, sul principio delle fortezze precedentemente appartenute ai dinasti un tempo nomadi della discendenza Yuan. Ove soltanto le donne, e gli immancabili eunuchi, potevano avere un accesso privo di ostacoli al di fuori di tempi e luoghi definiti. Lo stesso sfortunato (ma non raro) destino anatomico a cui il caro vecchio Zheng, al secolo Ma He, era andato incontro anni prima, nel 1381 a seguito della riconquista della comanderia islamica di Kunyang. Ma se attraverso tali lunghe decadi la sua categoria civile, nonché professione involontaria era giunta ad amministrare una parte considerevole del potere centrale, ciò era anche e soprattutto dovuto alla fiducia che il principe di Yan, ancor prima di accedere al trono Celeste, aveva scelto di riporre nel suo luogotenente preferito. Tanto da accordargli il privilegio di condurre la più potente e vasta flotta che il mondo avesse mai conosciuto, oltre mari sconosciuti e nella pletora di regni che potevano, e dovevano rendere omaggio alla sola nazione con il privilegio di essere la favorita del Cielo e della Terra, la Cina dei Ming. Ma anche quello di tornare, ogni volta, in trionfo e superare le agguerrite guardie di palazzo, con una schiera di portatori appesantiti da doni magnifici, le ambascerie o i sovrani stessi catturati e riportati indietro nei suoi viaggi e l’occasionale, incredibile animale riportato dall’Occidente. Ma questa volta, indubbiamente, le cose sembravano diverse. Già dal momento in cui le centinaia di navi e i 27.000 uomini della flotta del tesoro avevano approdato presso l’unico porto abbastanza grande da contenerle, a Longjiang, la voce si era sparsa che l’ammiraglio aveva riportato con se una bestia degna di innumerevoli poemi e leggende: niente meno che il Qilin, l’unicorno draconico, una delle bestie guardiane a fondamento delle antiche discipline filosofiche e dell’alchimia cinesi. Alto, magnifico con il suo manto variopinto, il collo teso a sfidare l’elevazione delle nubi stesse, con due corna ricoperte di pelo come scritto negli antichi testi e lunghe zampe dagli zoccoli fessurati. La snella ma imponente creatura, la cui testa ora spuntava sopra le ornate tegole della sala dell’Educazione Mentale, un palazzo minore destinato a diventare nei secoli la residenza dei successivi detentori dell’egemonia Ming. Al cui ingresso Yongle in persona, sopra una piattaforma rialzata in cima all’ampia scalinata, sedeva in paziente attesa circondato dai suoi consiglieri, le concubine preferite ed uno stuolo di fedeli eunuchi di corte. Così che, quando il tributo vivente di re Saif Al-Din Hamzah Shah del Bengala, in quel fatidico 1414 giunse al suo cospetto, egli poté guardarlo dritto negli occhi, accedendo alla massima energia residua della sua imprescindibile buona sorte.
L’adorabile groviglio di tentacoli scovato grazie ai video amatoriali dello stretto indonesiano
Sebbene ci siano molti animali dall’aspetto notevole nel mondo, è decisamente alquanto raro che singole specie vantino un appellativo che parrebbe uscito da un fumetto dei supereroi. L’incredibile… Wunderpus, invisibile cervello manipolatore degli ambienti abissali. Che li protegge dagli agguerriti nemici della natura? D’altronde, va pur detto che la maggior parte delle volte le categorie genetiche tendono ad essere identificate grazie ad analisi fenotipiche o all’interno di asettici laboratori, dove l’uso della nomenclatura binomiale con generoso uso di parole greche o latine viene considerato un orgoglioso marchio di fabbrica nell’ambiente della scienza accademica e quelli che si muovo al suo interno. Perennemente attenti, sempre indaffarati, intenti a manipolare attrezzatura, provette, terminali e microscopi più o meno elettronici, spesso allo stesso tempo. Cui farebbe indubbiamente comodo, tra tutti, la saliente dotazione di quattro paia di braccia. Il che potrebbe spiegare, almeno in parte, il fascino innato posseduto dall’intero ordine degli Octopoda e più in particolare, nel distintivo gruppo capace di mimetizzarsi, cambiare forma ed un cervello abbastanza complesso da farne buon uso. Ecco un esempio, se vogliamo, delle maniere imprevedibili in cui opera l’evoluzione: fino alla creazione di una creatura dal corpo molle, quasi totalmente priva di difese degne di nota e totalmente vulnerabile per quanto concerne i predatori. Ma infinitamente più scaltra, rispetto a loro. Un tipo di dicotomia ancor più applicabile nel caso della specie in oggetto, scoperta formalmente nel 2006 pur essendo ritenuta quanto meno probabile da un tempo esponenzialmente più lungo, vista la ridotta efficienza del suo organo produttore d’inchiostro, nei fatti non più funzionale al fine di creare la caratteristica nube di dissimulazione tipica dei cefalopodi soggetti a fattori di pericolo o disturbo. Più volte comparso e casualmente noto come “polpo dai tentacoli sottili” all’interno d’infiniti filmati di vacanze indonesiane girati all’interno del biodiverso stretto di Lembeh, ma anche nelle Filippine o presso l’isola di Vanuatu, il Wunderpus photogenicus (che ci crediate o meno, questo è il chiaro sottotesto del suo cognome) era inoltre riconoscibile per un’altra prerogativa almeno in apparenza controproducente alle sue prerogative di sopravvivenza. Sto parlando del possesso di una colorazione a strisce color mattone ragionevolmente riconoscibile anche una volta cambiato colore grazie all’uso dei fotofori, andando ad inficiare proprio quelle caratteristiche di mimetismo giudicate normalmente necessarie allo stile di vita ottuplice degli abissi marini. Lasciando come unica strategia disponibile al nostro amico quella dell’autotomia e successiva rigenerazione di uno dei propri preziosi arti serpeggianti, cui non è propriamente conveniente far ricorso a meno che si tratti dell’ultima residua possibilità di salvezza. Nessuno aveva mai pensato, in fin dei conti, che la vita dei molluschi potesse risultare semplice, sotto la coperta perpetua delle onde oceaniche del tutto indifferenti allo splendore dei loro abitanti…