Nella ponderosa e inaspettatamente formale cerimonia, l’addetto ai tubi d’acciaio si avvicinerà il prossimo 5 febbraio con fare compunto all’assemblaggio del macchinario, poco più alto della sua mera statura umana. Una ricostruzione frattale e schematica, se vogliamo, di questo stesso involucro esterno se fosse portato alle ideali conseguenze; una specie di micro-ambiente ecclesiastico idealizzato, con tetto spiovente e due campanili che lo mettono ombra. Altrettanti sacchetti di sabbia continueranno a premere su altrettanti pedali (o se vogliamo, “tasti”) mentre il pubblico sembrerà trattenere il fiato. L’incaricato, allora, toglierà solennemente l’oblungo componente. E come se niente fosse, installerà la sua controparte lievemente più lunga. Dapprima nulla sembrerà essere cambiato nel circostante ambiente. Finché un poco alla volta, ci si abituerà al cambiamento. Il suono stesso, sarà diverso! La musica, di suo conto, continuerà ininterrotta.
Cos’è il silenzio, se non la percezione effimera di una cessazione del cambiamento… L’assenza transitoria, per lo più teorica o immaginifica, di alcun tipo di oscillazione nelle onde sonore, normalmente causata dall’interazione fisica tra le diverse monadi che compongono l’esistenza. Una situazione che risulta essere, formalmente, impossibile o quantomeno infinitamente improbabile. Poiché la stasi assoluta non è esiste in natura ed è molto complessa da ottenere artificialmente. Persino all’interno di una camera anecoica, dove la percezione sensoriale di un qualcosa implica la presenza di almeno un singolo portatore di coscienza. Il cui stesso corpo, il sangue nelle vene, i muscoli e le ossa, produrranno inerentemente il tipo di scricchiolio associato alla canticchiante e danzante sostanza che compone gli esseri viventi. Ma siamo davvero sicuri, in fin dei conti, che l’immobilità implichi necessariamente l’assenza? In una chiesa dedicata a San Burchardi facente parte di un ex-convento situato ad Halberstadt nel Circondario dello Harz, le orecchie aperte dei visitatori sono accolte dal prolungarsi di un singolo suono capace di prolungarsi anni, se non decadi prima di essere sottoposto a un progressivo cambiamento. Nell’universo totalmente arbitrario, completamente creato dall’uomo dell’ascolto musicale di un tale intento, esso potrebbe idealmente protendersi all’infinto. Pur risultando la voce, in un certo senso, di un’epoca e un autore appartenenti al nostro passato. Difficile immaginare a tal proposito che cosa avrebbe pensato il compositore statunitense John Cage (1912-1992) tra i principali creatori della teoria musicale contemporanea, di fronte all’utilizzo fatto in questo caso di uno dei suoi brani più famosi e filosoficamente interpretabili. Quello stesso ASLSP (As Slow As Possible – Il Più Lento Possibile) inizialmente scritto per pianoforte nel 1985 e successivamente adattato all’organo due anni dopo. Spalancando un abisso incolmabile per chi intendesse far seguito al titolo che è anche un invito sul metodo di suonarlo, quando si considera come la pressione della tastiera del più tipico strumento a corde domestico genera una nota che ha un inizio e una fine definiti, permettendo all’intera esecuzione ininterrotta una durata massima di 70 minuti. Laddove l’attrezzatura simbolo della musica da chiesa prevede la modulazione del passaggio dei suoni all’interno di una serie di canne, permettendo ad essi di prolungarsi per tutto il tempo in cui i mantici continuano a soffiare. Ovvero in un mondo servito dalla tecnologia moderna, ed a patto che qualcuno di abile ed attrezzato s’interessi alla questione, magari, chi può dirlo, per sempre…
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Il principio della nave che avrebbe attraversato l’Atlantico con sei ruote motrici
Il problema del metodo scientifico ed il motivo per cui, ancora oggi, non piace a molti è che applicarlo significa spesso gettare da parte i propri sogni e le relative speranze, sostituendoli con la glaciale realizzazione che il mondo opera in base a delle regole precise. Non sempre o quasi mai allineati a ciò che apparirebbe “logico” nella purezza operativa del pensiero basato su considerazioni pregresse. Così macchine volanti, le prime automobili e i battelli in grado di sommergere se stessi senza affondare dovettero fare i conti, nel corso dello scorso secolo, con accorgimenti ingegneristici essenzialmente contrari alle metodologie di superiore estetica ed efficienza. Ed in questo modo l’inventore francese Ernest Bazin, già creatore dell’aratro elettrico, un taglia-verdure, una macchina idrostatica per fare il caffè, nel 1891 cominciò ad armeggiare con un singolare modellino in legno di forma rettangolare integrato con sei galleggianti rotativi dalla forma lenticolare. Un’imbarcazione, nonostante le apparenze, almeno parzialmente basata sui dieci anni trascorsi a partire dall’età di 15 per volere del padre, che l’aveva fatto imbarcare come mozzo su un vascello destinato a girare il mondo. Esperienza destinata a farne un pensatore eclettico, ma anche un avventuriero e soprattutto la persona dotata dell’insolita commistione di capacità opportune a rivoluzionare, un giorno, l’intera industria dei trasporti navali. Dovete considerare, a tal proposito, come al ritorno in Francia dopo il 1855 egli ebbe modo di recarsi a corte incontrando personalmente Napoleone III, il re del Belgio e il Granduca di Russia. Così che non gli sarebbe stato difficile, col progredire degli anni, trovare investitori pronti a rendere possibili e sostenere le proprie idee fino alla fondazione assieme al fratello Marcel nel 1893 della società per azioni parigina Navire-express-rouleur-Bazin. Nessuno si sarebbe d’altronde sognato di mettere in dubbio in quel momento il balzo quantistico offerto dall’avveniristica bateau rouleur o “nave rotolante” che avrebbe condizionato, di fronte ai posteri, l’apice finale della sua lunga carriera. Un sistema di massimizzare la velocità e minimizzare i consumi che traevano l’ispirazione, sotto ogni punto di vista ragionevole, da preconcetti che nessuno avrebbe potuto confutare empiricamente all’epoca. Non era forse vero, d’altronde, che i catamarani riuscivano a spostarsi più velocemente di qualsiasi altra nave da crociera esistente? E ciò non avveniva, forse, per il fatto che la superficie dello scafo posta a contatto l’acqua risultava quantitativamente inferiore ad altri tipi di soluzioni convenzionali? “Dunque immaginate se l’intera parte della nave a contatto con i flutti marini cominciasse, adesso, ad assecondarne i movimenti.” Avrebbe esordito nella propria conferenza esplicativa “Scorrendo via letteralmente sotto il battello, in maniera analoga agli efficaci e paralleli semiassi di un vagone ferroviario…”
Viaggio fantastico nel foro più profondo creato dall’indigente bramosia umana
Non è un segreto che l’avidità possa smuovere le montagne ma c’è almeno un caso nella storia degli scorsi due secoli, nella geografia e topografia del Sudafrica, in cui un’intera significativa massa di terra è stata semplicemente obliterata, da circa 50.000 persone armate di semplici vanghe, carriole ed altri attrezzi fatti funzionare unicamente con la forza delle loro schiene ed il sudore delle loro fronti. Non che gli effettivi lavoratori immigrati a Kimberley della miniera destinata ad essere chiamata dopo il 1871 “The Big Hole” (Il Grande Buco) fossero destinati a trarre un effettivo aumento di privilegi da tali fatiche: il guadagno per procura fu fin dal primissimo momento uno dei punti cardine, la stessa ragione d’esistenza, del nascente commercio su larga scala dei diamanti. Fin da quando il quindicenne Erasmus Jacobs, circa 10 anni prima di quel drastico inizio, accettò di dare “in prestito” al suo vicino Schalk van Niekerk uno strano ciottolo brillante che aveva trovato sulle rive di un torrente locale. Pietra destinata ad essere analizzata, accantonata e quindi approfondita ulteriormente presso specialisti a Città del Capo, fino dimostrarsi finalmente essere quello che l’uomo aveva sempre sospettato: un diamante da 21,25 carati. Schalk l’avrebbe quindi esposto alla fiera di Parigi nel 1867, momento a seguito del quale sarebbe diventato celebre come il Diamante Eureka. Ma tale acquisizione di fama e celebrità non poi tanto significativo, rispetto all’acquisto di due anni dopo da parte sua di un’immensa pietra da 83,7 carati, dietro il pagamento ad un pastore di 500 pecore, 10 buoi e un cavallo. Affare niente male per l’acquisto del diamante destinato a diventare noto come la Stella del Sudafrica passando subito di mano per una cifra iniziale di 11.000 sterline, per poi aumentare ulteriormente di valore fino alle 225.300 per cui sarebbe stato scambiato nel 1974. Ma per tornare a un secolo prima di quel momento, fu improvvisamente chiaro al mondo che nelle colline attorno alla seconda più popolosa città della sua intera regione geografica c’era Qualcosa e che i primi che fossero riusciti a trasformarlo in opportunità ne avrebbero di certo ricavato dei profitti assolutamente spropositati. Viene dunque fatto risalire al 1869 il momento in cui una nuova classe d’immigrati cominciò ad acquistare terreni estensivi sul versante poco fertile di quelle colline, alla frenetica ricerca della propria fortuna. Dando luogo alla caotica ed urgente situazione dalla quale, gradualmente, sarebbero emerse figure destinate a lasciare un segno indelebile nella storia del commercio globalizzato…
Rosso avadavat, con l’aspetto di una fragola fuggita dalla macedonia volante
All’epoca della prima creazione di un sistema tassonomico coerente, quando Linneo pubblicò il suo rivoluzionario catalogo delle specie nel Systema Naturae, capitava frequentemente che i naturalisti sopravvalutassero il numero delle specie d’uccelli. Questo per i casi di marcato dimorfismo sessuale tra maschio e femmina, caratteristica piuttosto frequente in tutti i casi in cui la competizione tra i possibili partner d’accoppiamento tendeva a svolgersi sul piano estetico, piuttosto che essere decisa dall’abilità nel canto, nella danza e la ferocia nel controllo del territorio. A tale fraintendimento poteva dunque aggiungersi l’idea che una delle suddette categorie potesse risultare migratoria, comparendo unicamente in determinati periodi dell’anno quale, ad esempio, il concludersi della stagione delle piogge nel subcontinente indiano ed Asia Meridionale. È perciò una chiara testimonianza della vasta popolazione ed ancor più significativo areale di questo bengalino estrildide, classificato in un primo momento dall’autore svedese come Frigilla amandava, se la sua situazione e storia biologica furono fin da subito chiaramente descritte, nonostante sussistesse il potenziale di significativi passi falsi in materia. La caratteristica maggiormente distintiva di questi passeriformi, piuttosto somiglianti ai diamanti mandarini (gen. Taeniopygia) benché biologicamente distinti, è proprio il mutamento stagionale del piumaggio dei maschi, che si verifica ogni anno verso il finire del mese di maggio e continua a sussistere fino a novembre. Un processo che vede il piccolo uccello di un grigio-bianco mimetico tingersi progressivamente di chiazze color vermiglio, inclini gradualmente ad incontrarsi in una singola, ininterrotta livrea puntinata di bianco. Mentre il becco del volatile, normalmente nero, diventa anch’esso del colore di un tramonto in una tersa giornata di primavera. Mentre il comportamento stesso dei prescelti li trasforma in esseri cospicui e chiassosi, rendendo molto più probabile la cattura da parte di eventuali predatori. Un chiaro esempio di dimostrazione dei fenotipi appropriati ed il valore genetico del proprio patrimonio, poiché la natura presume che soltanto i migliori a correre un rischio simile possano dirsi possessori dei presupposti necessari a cavarsela, un proposito tutt’altro che semplice sia per le figlie di Venere che i discendenti di Marte. Creature per lo più inclini a nutrirsi di semi e germogli, i bengalini comuni possiedono inoltre l’inerente propensione a catturare varie tipologie d’insetti, tra cui preferiscono in modo particolare le formiche, termiti e miriapodi di varia natura. Nei confronti dei quali appaiono, indubitabilmente, come dei terribili e spietati predatori…