Invero il paesaggio non possiede alcun concetto della propria bellezza. Neppure una traccia della consapevolezza che caratterizza i membri di categorie viventi. Esso abita e sussiste le sue circostanze, come mera conseguenza dei fattori ambientali di sviluppo, erosione e incontro geologico tra i flussi convergenti della materia. Solidi, gassosi e… Scorrevoli. Scroscianti! Come il suo che riecheggia tra le valli verdi situate a 270 Km a nord di Hanoi, la capitale. E ad un lancio di frisbee dal punto fatidico in cui ogni cosa cambia, pur restando essenzialmente la stessa. Là dove le mappe cessano di dire “Paese del Meridione” sostituendolo con “Terra di Mezzo”, uno dei territori nazionali più vasti e potenti al mondo. I cui confini, fin dall’epoca della Grande Muraglia, non permettono di transitarvi facilmente all’interno. Ma alle acque non importa tutto questo; esse transitano, con assoluta e preponderante indifferenza, là dove le pieghe del terreno tendono ad indirizzarle. Oltre il paesaggio carsico e dentro un vasto bacino. Quello degno di accogliere, in parole povere, la quarta cascata transnazionale al mondo, dopo quelle d’Iguazu, Victoria e Niagara. Un flusso d’acqua pari a 55,20 metri al secondo, con una larghezza di 100 metri per un’altezza di 90. Benché sarebbe più corretta forse definirla un sistema. Essendo essa composta da due diramazioni distinte del fiume con origine nella regione del Guanxi, il rapido, ma non grandissimo Quay Son. Così da creare, differentemente dagli altri luoghi citati, due spettacoli dalla portata comparabile, ma dimensioni non identiche, da un lato all’altro della saliente demarcazione. Uno è quello della vasta e ponderosa cascata di Detian, così chiamata fin dai tempi dell’antica letteratura cinese. Coerentemente contrapposta alla sua “sorella” sensibilmente più minimalista, il grande balzo che i vietnamiti definiscono Ban Gioc. Due realtà distinte in grado di convergere nelle stagioni della pioggia eccezionalmente intensa, creando un fronte d’acqua indiviso che si estenderà per 208 metri. Facendo scomparire i versanti verdi dell’intero balzo, ricoperti di una significativa quantità di piante la cui resistenza alla possenza di quel flusso non può essere chiamata niente meno che leggendaria. Eppure non è solo nel sussistere di tali circostanze che la gente viene a visitare questo luogo, più volte incluso negli elenchi dei siti turistici e panoramici più belli di tutta l’Asia Orientale, ancorché non si conosca in modo particolare fuori dalla vastità geografica di quel continente. Forse a causa della grande attenzione riservata negli studi di cultura, storia e società di quei popoli, tendente a sovrascrivere una consapevolezza cognitiva globalizzata dei luoghi dove questi scelsero d’insediarsi. Parte di un ambiente, a conti fatti, non meno eccezionale o notevole di qualsiasi altro continente…
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L’oceano era invitante, il pescato abbondante. Scorgemmo all’orizzonte uno squalo rotante
Ogni tanto Mora si permetteva il lusso di porsi un paio di domande esistenziali. In quale maniera, esattamente, si era trovata in questa situazione assurda? Perché non aveva puntato la sua ventosa verso una pacifica balenottera, o tranquillo squalo elefante? Aveva sentito il racconto dei suoi simili che avevano finito per abbinare la propria esistenza a un capodoglio. E della scocciatura che rappresentava, ogni giorno, il modo in cui tali cetacei si tuffavano in profondità in cerca di prede, per poi tornare in superficie con tutta la rapidità e la grazia di un sottomarino nucleare. Eppure, anche considerando il modo in cui gli echeneidi raramente potessero scegliere l’ospite del proprio rapporto simbiotico, Mora non poteva fare a meno di sentirsi particolarmente sfortunata. Soprattutto dopo un atterraggio particolarmente violento, a seguito del balzo reiterato che costituiva ormai da tempo il suo (amaro) pane. “Dannato squalo, vuoi darti una calmata?” Imprecò tra se, mentre mangiava l’ennesimo parassita che aveva il potenziale di arrecare danni alla pelle ruvida dell’imponente creatura. “Dopo tutto quello che ho fatto per…” Ora il pesciolino dalla testa adesiva, poco più che una macchia sulla sagoma da 90 Kg del carcariforme, scorse sulla distanza il segno che stava per succedere ancora. Uno scintillante branco di aringhe, intente a muoversi placidamente lungo la colonna oceanica lungo la linea dell’orizzonte. Grosso errore. L’amico Spinny, che costituiva il suo veicolo e vivente dimora, diede lo strattone a lato che segnalava l’inizio della “caccia”. Se così fosse effettivamente possibile chiamarla! Affrettandosi alla velocità che un umano avrebbe definito di quasi 70 Km orari, lo squalo si avvicinò adesso dal basso al branco di prede inconsapevoli. Mentre il suo passeggero si preparava a quello che sapeva, malauguratamente, stava per accadere. Mora sentì la forza centrifuga che aumentava esponenzialmente, mentre Spinny si orientava verticalmente con il muso verso la luce di superficie. E girando, girando su se stesso penetrava a gran velocità nel nugolo d’impreparate creature. Mentre “Chomp, chomp!” facevano le sue mandibole, i denti lisci chiusi come implacabili tagliole. Finché la sua trivella, inevitabilmente, bucò il cielo. Mentre la piccola remora attaccata sopra il dorso, parzialmente e momentaneamente accecata dal formidabile flusso d’aria, tentava di tenersi attaccata…
Lo squalo rotante, nome scientifico Carcharhinus brevipinna, è la formale o pratica dimostrazione di quello che sarebbe possibile ottenere dall’evoluzione chiedendo d’imparare a fare una singola cosa molto bene, continuando a perfezionarla ulteriormente nel corso della propria esistenza. Un balzo alla volta, un pasto dopo l’altro, nell’effettiva definizione di una nicchia ecologica che nessuno, in alcun caso, avrebbe mai potuto tentare di sottrargli. Questo perché una creatura affusolata degli oceani, avendo la necessità di muoversi all’interno di un fluido, possiede inerentemente la dote di essere altrettanto aerodinamica all’interno della massa rarefatta che costituisce la nostra atmosfera. E nessuna barriera invalicabile, una volta che irrompe oltre il margine del primo e si ritrova nella seconda, può frapporsi ad interrompere il suo cammino…
La prova dei vichinghi nel Nuovo Mondo: L’Anse aux Meadows, villaggio tra i verdi pascoli di Terranova
Non c’è visione maggiormente soggettiva che il concetto di una terra promessa, spesso interpretabile come un luogo dove realizzare a pieno titolo il proprio stile di vita e le risultanti idee. Paese di abbondanza, ampi territori e significative risorse, in un caso, oppure la destinazione dove allontanarsi dal bisogno di combattere per mantenere i propri spazi. Lasciar perdere l’implicito coinvolgimento nelle faccende del regno. In un certo senso, qui trovarono entrambe le cose. I coraggiosi uomini e donne che, probabilmente poco dopo l’anno Mille, lasciarono le coste Norvegesi o d’Islanda, a bordo delle stesse navi lunghe che per almeno due secoli avevano costituito il terrore di mezzo Nord Europa. Navigando, come stavano facendo i popoli di Polinesia in epoca coéva, verso un territorio precedentemente ignoto. Vinland, l’avrebbero chiamato, “Terra del Vino” come avrebbe figurato, facendone menzione, nelle saghe letterarie di Erik il Rosso esiliato per l’assassinio ingiustificato di un suo pari, lo Hauksbók ed il Flateyjarbók. Benché lo studio dei moderni filologi abbia saputo confermare, in base al senso comune e documentazione di contesto, un possibile fraintendimento nella traduzione di tali opere. Causa l’omofonia del termine in lingua Norrena, vin che avrebbe potuto anche significare “prati”. Un cambio di paradigma particolarmente significativo, nei fatti, poiché estendeva la possibile collocazione di tale area geografica molto più a nord, dove l’uva non avrebbe mai potuto crescere coi metodi agricoli del Medioevo. Fino a un luogo dove negli anni ’60, indagando in modo sistematico come investigatori del nostro passato, l’archeologa Anne Stine Ingstad e suo marito esploratore Helge Ingstad andarono a fondo nella menzione di strani manufatti ritrovati da alcuni abitanti della zona circostante la città settentrionale di St. Anthony, nella provincia canadese di Labrador e Terranova. Per trovare infine, lungo la striscia di terra che si estende da quell’isola, un sito che sembrava degno di essere disseppellito con la massima cautela. Destinato a lasciar riemergere qualcosa di tanto eccezionale, così privo di precedenti da non permettere neppure a loro stessi di comprendere il cambio radicale di paradigma a cui avrebbe portato la sua scoperta. Principalmente un gruppo di otto edifici, inclusa una forgia e svariate centinaia di manufatti a partire dalla prima, distintiva fibbia lavorata in metallo, unicamente classificabili come il prodotto di una civiltà lontana. Proprio quella che si sospettava, a quell’epoca in maniera più che altro empirica, aver “scoperto” le Americhe almeno quattro secoli prima di Cristoforo Colombo. Troppi erano i segnali, in effetti, per ignorarli a partire dai segni presenti sui materiali da costruzione, chiaramente derivanti da strumenti frutto di lavorazione metallurgica riconoscibile, l’arcolaio in pietra per la lana e soprattutto l’architettura stessa, fino alla grande casa di colui o coloro che dovevano costituire i capi della spedizione, persino maggiore di quella di un capo villaggio nel contesto europeo. E di sicuro non il frutto, per quanto possiamo desumere, dell’intento di un popolo nativo. Il che provava per la prima volta in modo inconfutabile l’avvenuto contatto tra i continenti. Aprendo nel contempo la strada a possibili spunti d’analisi ulteriori…
Il Re Scorpione dell’allevamento, aspirante miliardario dei nostri giorni
In un mondo ideale, i prestigiosi laboratori scientifici utilizzano i tesori della natura con sincera attenzione nei confronti della loro provenienza. In un risvolto collaterale della sostenibilità operativa, nessun allevamento di animali viene praticato fuori dai propri contesti geografici, praticando la cattura irragionevole di grandi quantità di esemplari appartenenti a specie dal varabile stato di conservazione. In quel particolare scenario, piccoli imprenditori locali, con un sincero interesse nei confronti della tutela ambientale, esportano direttamente tale nettare, reinvestendo parte dei guadagni nella reintroduzione in natura delle successive generazioni. Ma di cosa, esattamente? La risposta generica è che, a dire il vero, può variare benché nel caso specifico e per dirla tutta, stiamo parlando di scorpioni. L’aracnide carnivoro e comunemente notturno, dalle chele concepite per ghermire a fare a pezzi la preda, la cui arma maggiormente temibile resta d’altronde il pungiglione sulla coda: vettore di veleni non del tutto esplorate dalla scienza, la cui funzione a discapito degli esseri viventi appare per lo più deleteria o persino letale. “Perfetto!” Appare a questo punto sulla spalla uno scienziato, come il piccolo demonio della perversione, immaginando le possibili e redditizie applicazioni delle circostanze. Poiché ogni sostanza che una volta assunta in grandi quantità è dannosa, non ha forse sempre il merito di assolvere a uno scopo se trattata o utilizzata nella giusta quantità individuale? E più piccola risulta essere tale misurazione, maggiore tende ad esserne di conseguenza il valore. Ora trasferite quel pensiero dal punto di vista di uno degli sperimentatori commerciali, che palesemente si sono trovati ad operare in un settore nuovo, particolarmente in Medio Oriente, India e Cina. Coloro che pensando ad una nuova corsa all’oro dei peptidi tossici prodotti dagli ottuplici deambulatori, hanno investito nel corso dell’ultima decade considerevoli risorse nell’allevamento di questi piccoli, possibili benefattori. Guidati dal miraggio economico, formalmente non lontano dalla verità, secondo cui il veleno di determinati scorpioni “in condizioni ideali” potesse valere anche più di 10 milioni di dollari a litro, per la sua efficacia nei test clinici relativi a cure o diagnosi tumorali, la creazione di antidolorifici sperimentali ed altre applicazioni future. Molto più del sangue umano e ALMENO il doppio dell’inchiostro di una stampante per uso non-commerciale! Dal che la nascita, tanto per fare un esempio estremamente pregno, di una realtà come la Scuola di Scorpioni Iraniana, istituzione mirata a preparare gli esponenti della nascente aristocrazia economica locale ai compiti ricorrenti legati a questo tipo di attività. Come… Catturare gli aracnidi, nutrirli, farli riprodurre, accudire i nuovi nati e naturalmente… Mungerne la preziosissima sostanza. Che l’istituzione stessa prometteva di acquistare nuovamente per rivendere nei numerosi centri di ricerca all’estero interessati ad acquisirla, permettendo ad ogni punto della filiera di beneficiare largamente della conseguente opportunità Se non che gli eventi, in base agli ultimi dati reperibili online, avrebbero finito per prendere una piega considerevolmente diversa…