Mangiando cactus la capra sopravvive. Se fai lo stesso, i risultati possono variare

Con un ultimo sospiro, chiudi il cofano del tua Ford 150 volgendo lo sguardo al cielo. Si scorge ancora in flebili volute il fumo, fuoriuscito dal motore nel momento in cui ha capito che non c’era più niente da fare. Il masso che ha colpito il radiatore, deve averlo fatto ormai da qualche tempo, causando il surriscaldamento e conseguente distruzione delle guarnizioni. Tutta l’acqua è defluita via lungo il percorso e ad ogni modo, come potresti fare a trasportarla? Con aria sconsolata ti guardi attorno. Una distesa per lo più marrone di terra e sabbia, con qualche rado filo d’erba nei pertugi tra un declivio e l’altro. Il telefono non ha alcun tipo di ricezione. Hai già tentato tutto, tranne l’ultima cosa da fare: camminare. Secondo i tuoi calcoli, ci sono circa 40 Km tra te e l’insediamento più vicino. Percorribili in tre o quattro giorni, SE tutto va bene. Ma non hai nulla da bere, né cibo. Non hai attrezzi o recipienti. Che fare? Al primo calar del Sole, fai finalmente mente locale sulla situazione; a voler usare un eufemismo, non è detto le cose si risolvano per il meglio. Ti risvegli sotto un albero di Yucca, meditando d’iniziare a bere la tua urina. Poi scorgi qualche cosa all’orizzonte: una piccola macchia di ferocactus a forma di barile. Possibile… Salvezza? C’è già una pietra affilata nella tua mano, mentre in testa aleggiano le immagini di una fantastica visione, che ti sembra di aver sognato al volgere della mattina. O forse si tratta dell’ultimo video che hai guardato con il cellulare? La capra dalle grandi corna, tipico abitante del deserto di queste parti, che colpisce ripetutamente con il palco una di queste piante. La distrugge, demolisce, infilza il globulo carnoso. E dunque sugge il sacro nettare all’interno, traendone la vita. Non vedi alcun tipo di ragione per cui tu non debba fare lo stesso. Con un colpo netto, decapiti la pianta e scruti sotto il margine delle affilate spine, splendore barbagliante, inusitato…
C’è un luogo comune in associazione con le piante succulente dei deserti nordamericani, perpetuato almeno in parte grazie al cinema di genere western e i programmi di sopravvivenza in Tv: che sotto quella scorza coriacea, l’acqua si nasconda in forma liquida aspettando solo di essere bevuta. Ed in effetti in caso d’emergenza è cosa nota che i nativi messicani delle tribù Seri fossero soliti riconoscere tre tipi di tali piante: i torreggianti quanto incommestibili fusti plissettati del saguaro (Carnegiea gigantea) tanto coriacei quanto incommestibili al palato umano; il siml caacöl ovvero “barile che uccide” (Ferocactus emoryi) la cui polpa poteva causare vomito, tremori e paralisi temporanea; ed infine il siml áa, il cactus a barile con le spine uncinate (F. wislizeni) l’unico che poteva essere impiegato per idratarsi in situazioni d’emergenza. Giacché pur essendo composti d’acqua al 70%, una porzione comparabile a quella del corpo umano, letteralmente alcun parte di tale fluido in queste piante è in forma liquida e pronta da bere. Bensì risultando incorporato, in modo letteralmente inscindibile, all’interno della carne tenera all’interno, egualmente ricca di sostanze come acidi, ossalato di calcio, fenoli tossici per l’organismo umano. O quanto meno poco familiari ad esso, al punto da poter causare una reazione sconveniente che potrà soltanto contribuire a disidratarlo ancora…

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Il maggior inganno del verme diavolo è aver convinto i protisti di essere al sicuro

Del tutto immobile ed inconsapevole questa Terra non è, bensì fluida e mobile, senziente. Una pesante sfera di cosmica essenza, entro la quale, non soltanto in superficie, sussistono presenze. Vita vera e vita pura senza compromessi, piatta, oblunga e serpeggiante. Esseri come la cosa-verme che si aggira silenziosamente, nei meandri sotto i più profondi dei pertugi scavati dall’uomo. È a tal proposito da lungo tempo un fatto acclarato, che la massa collettiva degli animali microscopici situati nel profondo ipogeo possa in via teorica eguagliare quella di ogni agglomerato di cellule che popola le lande illuminate dal Sole e dalla Luna, fin dai tempi della genesi di questo globo rotante. Soltanto fino all’anno 2011, sembrava totalmente logico pensare che a profondità talmente estreme, in assenza di ossigeno e con temperature superiori ad ogni soglia ragionevole, gli organismi in questione dovessero presentarsi come membri della collettività unicellulare, semplici per definizione ed infinitamente predisposti alla resilienza. Se non per la scoperta inusitata, realizzata durante la conduzione di alcuni sondaggi sulla composizione dell’acqua di faglia ad 1,3 Km di profondità presso la miniera d’oro di Beatrix nel Free State sudafricano, avrebbero portato il gemmologo dell’Università di Princeton, Tullis Onstott ad una netta esclamazione di sorpresa mentre allontanava l’occhio dal microscopio. Per aver visto, la dove nessuno avrebbe avuto modo di aspettarselo, del movimento. Con ben mezzo millimetro di lunghezza, l’equivalenza di “aver trovato Moby Dick nel lago Ontario”, pur senza preparazione specifica in materia, egli capì che doveva trattarsi di qualcosa di diverso da un semplice batterio o protista. Una presenza infinitamente più complessa, nello schema generale delle cose, tanto da suscitare presto l’attenzione del collega ricercatore belga Gaetan Borgonie, con pubblicazioni nel campo della zoologia, biologia ed anatomia. Che non ci mise molto a determinare la natura dei resti preservati dei vermi in questione, ormai da tempo transitati a miglior vita dopo esser stati rimossi dal proprio ambiente di provenienza: si trattava di nematodi, ovverosia vermi cilindrici, non così diversi dai loro cugini parassiti nostri coabitanti, capaci d’infestare piante, animali ed occasionalmente anche l’uomo. La caccia per un esemplare vivo, a questo punto, era ufficialmente aperta ed i due iniziarono a visitare diversi siti minerari sudafricani, ove avrebbero raccolto letterali migliaia di litri d’acqua da sei pozzi diversi fino a 3,6 Km dalla luce diurna, mentre ne filtravano ulteriori 150.000 filtranti dalla superficie, per scongiurare la contaminazione dei campioni raccolti. Il che avrebbe portato infine, alla scoperta di un singolo esemplare vivente, a cui sembrò del tutto naturale assegnare un nome particolarmente altisonante: Mefistofele, colui che odia la luce ed ogni presupposto di pietà…

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L’anacronistico missile antinave scagliato all’indirizzo della flotta dei samurai

Nei confronti subiti fino a quel momento, il nemico sembrava essere qualcosa di diverso dall’umano. Creature in abiti sgargianti, con maschere demoniache e spade ricurve, insegne simili a splendenti mongolfiere in mezzo ai venti. I guerrieri giapponesi temprati dal lungo conflitto di reciproco annientamento, che storicamente avrebbero preso il nome di Sengoku, erano giunti sulle coste peninsulari con una singola ed imprescindibile direttiva: guadagnare ad ogni costo gloria per i propri clan, dinnanzi all’occhio attento del loro taiko (reggente) Hideyoshi, l’uomo che singolarmente era riuscito ad appianare l’odio interno della sua nazione. Per volgere tali energie residue all’indirizzo di coloro che, in quell’epoca corrispondente grosso modo al nostro Rinascimento, si trovavano al termine di un lungo periodo di pace. Così la splendente civiltà del regno di Joseon, all’apice della cultura e delle arti coreane, si trovò dinnanzi all’obiettivo impossibile tali diavoli pronti al suicidio apparentemente invincibili sul campo di battaglia, negli assedi e nelle imboscate. Contro cui l’unica strategia efficace sembrava essere colpire i treni dei rifornimenti, o ancora meglio, i loro bastimenti all’interno dello stretto mare d’Oriente.
La strategia iniziò ad essere implementata già nel 1592, poco dopo la devastazione di Busan che avrebbe aperto la strada ai giapponesi verso i centri del potere di Hanseong e Pyongyang. Quando la flotta di Jeolla guidata dal leggendario ammiraglio Yi Sun-sin si parò innanzi alle atekebune e sekibune provenienti dall’aggressivo arcipelago nella baia di Geojedo, implementando con successo una manovra di accerchiamento. E dando inizio ad uno dei bombardamenti di artiglieria navale più significativi che il mondo avesse visto fino ad allora, grazie ai cannoni di vario calibro che avevano saputo posizionare sulle loro navi più pesanti e dunque stabili sul pelo delle onde. Con sfere di ferro, pietra e cariche a mitraglia, ma anche un qualcosa di particolarmente distintivo per l’epoca, l’imponente dardo in legno con punta e alette di piombo, che i cronisti coévi concordavano nel definire una sorta di “freccia” sovradimensionata. Ma che a un occhio moderno sarebbe sembrato, senza ombra di dubbio alcuno, un’imitazione piuttosto fedele del tipico missile antinave Harpoon. Un proiettile preciso chiamato daejanggunjeon, capace di volare fino ad un chilometro e 200 metri di distanza con un arco elegante. E soprattutto, agevolmente in grado di perforare l’armatura di bambù delle mekrabune ovvero versione nipponica delle navi tartaruga, da cui gli equipaggi potevano sparare rimanendo al sicuro dalle frecce continentali. Per la prima volta l’obiettivo nel bersagliare uno scafo non sembrava più esser quello di annientare l’equipaggio, bensì affondare nella realtà dei fatti l’intero vascello, che finiva a inabissarsi come nelle narrazioni epiche dell’antica battaglia di Dan-no-ura. I cui partecipanti della nazionalità degli aggressori, cinque secoli prima di quella data, erano annegati nello stretto di Kanmon. Reincarnandosi, secondo una leggenda popolare, in affamati granchi sovrannaturali…

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Strade di tronchi trasversali, le ossa desuete dei collegamenti sepolti

In qualità di civilizzazione comunemente considerata il simbolo dell’ingegneria pubblica nel mondo antico, l’antica Roma era solita costruire reti di collegamento in grado di durare secoli, se non millenni. Ed anche successivamente alla caduta del potere centrale, simili infrastrutture continuarono ad essere impiegate “resistendo all’uso” per l’intero periodo medievale; un risultato perseguibile anche grazie all’assenza del pesante traffico veicolare dei nostri giorni. Ciò di esistono soltanto rare testimonianze archeologiche, d’altro canto, è il tipo di sentiero costruito per l’esercito durante tali marce di conquista epocali. La costituzione in essere di una linea di transito, capace di essere spianata nel momento del bisogno. E la cui durata sia effettivamente garantita fino al completamento della campagna di turno. Una soluzione semplice. Una soluzione pratica. Forse l’unica possibile, considerati i presupposti. Immaginate una legione che procede in mezzo agli alberi di una foresta, trovandosi improvvisamente innanzi a un tratto di terreno paludoso. Ci sarebbe nulla di più naturale a questo punto, che abbattere i primi, per disporli uno di seguito all’altro sulla seconda?
Il termine tecnico attribuito in epoca moderna per tale prassi parzialmente dimenticata si configura come corduroy road; dal nome del tipico tessuto del velluto a coste, il cui aspetto in plurimi avvallamenti e protrusioni ricorda in effetti quello della strada concepita molti anni prima. Così chiamata tradizionalmente in riferimento al particolare percorso costruito dai normanni poco dopo l’anno mille, per porre sotto assedio la fortezza di Hereward il Fuorilegge, famoso condottiero dei ribelli sassoni durante la conquista delle isole inglesi. Ma per dare seguito ad un simile contesto culturale, il particolare sistema avrebbe in seguito trovato larga applicazione particolarmente dopo i quasi cinque secoli, necessari affinché gli europei approdassero sulle remote coste del Nuovo Mondo. Un luogo dove zone ancestrali di foresta tappezzavano il perimetro dei continenti. E non c’era nulla di più facile, per collegare i vari insediamenti, che traferirne l’opportuna parte sotto le ruote dei propri sistemi logistici eminenti. Ed alcuni dei tratti di corduroy oggi più rilevanti dal punto di vista archeologico sono riemersi sostanzialmente nello stesso modo: durante i lavori per la posa in essere di nuovi tratti di collegamento, mentre i cantieri scavavano al di sotto del terreno noto, riscoprendo il legname di un tempo oramai distante. Vedi il caso della scoperta realizzata nel 2015 in Fairfax, Virginia, dei numerosi tronchi di cedro utilizzati durante l’epoca della guerra civile in sostituzione dei noti sentieri fangosi tipici di questa regione nordamericana. E sembra quasi di vedere i treni di rifornimenti, dietro all’esercito dal passo lieve e i suoi cannoni frutto delle forge mai sopite, mentre incedevano verso gli obiettivi giudicati necessari dal comando dell’Unione…

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