Compilare un elenco degli uccelli più magnifici, interessanti o particolari del mondo non sarebbe necessariamente un’impresa semplice: troppo soggettivo è il gusto estetico e le fondamentali opinioni che tendono a derivarne, in funzione dei fattori contestuali e il tipo di educazione estetica di cui si è stati destinatari. Qualunque sia il proprio luogo o nazione di provenienza, tuttavia, sarebbe particolarmente insolito non restare colpiti dal variopinto abitante pennuto di una singola isola dell’Indonesia, alto fino ad 80 cm e del peso massimo di 2500 Kg. Cupe le sue ali, come un draculesco mantello, eppure sormontate da una testa sopra il collo giallo candido che non sfigurerebbe nella ricostruzione fantastica di un dinosauro: gli occhi cerchiati di blu e una pappagorgia dello stesso colore. Inframezzati da un becco sproporzionatamente grande che ricorderebbe quello del tucano, se non fosse per la copertura di una placca zigrinata chiara e scura in regolare alternanza. Ed a ornare tutto questo, come la cresta impossibile sull’elmo di un centurione, una struttura ossea con la forma simile a una banana, di un marrone scuro e lucido, che rientra in un ciuffo di piume della stessa tonalità sfumata. La coda bianca a forma di ventaglio conclude quindi l’outfit di una creatura che potrebbe essere straordinariamente elegante, se non sembrasse ancor prima di questo fuoriuscita da un catalogo delle creature ritrovate sul quarto pianeta del sistema Vega. Eppure l’Aceros/Rhyticeros cassidix (a seconda che si voglia utilizzare la nuova o vecchia nomenclatura) è una presenza relativamente ricorrente nella terra emersa labirintina di Celebes, undicesima tra le isole maggiori del mondo. Dove con l’appellativo locale di Julang sulawesi vive, si riproduce e tenta di proteggere il suo territorio, in un mondo che cambia lasciandogli sempre meno spazio a disposizione, nonostante chiunque sia nominalmente pronto a rendere chiara la sua ammirazione. In quale altro luogo è possibile, d’altronde, osservare un simile prodotto magnifico della natura? La cui capacità d’adattamento è la diretta risultanza, per quanto ci è dato comprendere, di un’ampia nicchia ecologica e la sua capacità di sfruttarla con esplicita quanto invidiabile competenza. Almeno finché non giunse l’impossibilità fisica ed oggettiva di occupare, con le proprie piume, determinati ambienti…
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L’enigmatico linguaggio della pietra situata lungo il corso dell’antico fiume Ingá
L’incertezza è uno strumento dall’enorme potenziale per riuscire a stimolare l’immaginazione, evocando immagini o concetti in grado di creare affascinanti scenari. Ed è forse proprio in tale ambito che va cercata la ragione per cui l’età di sei millenni di un particolare macigno in pietra di gneiss e i suoi dintorni nello stato di Paraiba in Brasile tende ad affascinare e coinvolgere la mente di un tale numero di persone. Aspiranti archeologi più o meno sanzionati dall’accademia, tutti giustamente animati dal tentativo di giustificare la presenza, sul suddetto materiale, della più fantastica collezione d’iscrizioni create dall’uomo, raffiguranti una notevole varietà di concetti, immagini e possibili messaggi logografici d’inimmaginabile natura. Come se l’assenza di una specifica epoca di riferimento disponibile per l’imponente assieme di manufatti litici, misurante nel complesso un totale di 250 metri quadri, fosse la giustificazione per situarlo all’apice di una linea temporale con inizio prossimo al suo affioramento geologico, nonostante l’assenza di effettivi ausili utili ad avvalorare una simile tesi. Pensateci, d’altronde: come attribuire una specifica data per quanto concerne un sito dalla natura tutt’altro che organica? E per questo avverso alla collocazione temporale con il carbonio, privo di significativi reperti o rimasugli di vicini villaggi coévi e soprattutto appartenente a un’area geografica in cui testimonianze scritte non sarebbero comparse fino all’arrivo dei coloni europei, soltanto una manciata di secoli innanzi al momento presente. Fatta eccezione, guarda caso, per l’effettiva pietra del fiume Ingá, chiamata nella lingua tradizionale dei Tupi “Itacoatiara” o pietra dipinta, un termine che ritorna anche nel nome di città e villaggi in varie zone dell’intero Brasile. Quasi certa resta d’altra parte l’attribuzione del sito archeologico agli antenati prestorici di questa gente, con possibile collocazione in un contesto affine a quello dei Potiguara (o Pitiguara) un popolo famoso per essere stato tra i primi ad allearsi con i portoghesi durante il periodo coloniale, dando inizio alla tradizione del cunhadismo. Secondo cui ciascun europeo sposato con una donna indigena avesse il diritto al servizio clientelare dei propri “cognati” ed altri parenti acquisiti, spesso destinati a diventare parte della forza lavoro di ciascun insediamento, accrescendo e velocizzando la crescita esponenziale di tali comunità miste. L’esatto contesto, a quanto ci è dato comprendere, in cui venne messa per la prima volta per iscritto l’esistenza dell’antico sito dal possibile significato religioso ormai scomparso nella nebbia dei tempi…
Un atteso riconoscimento al lago che occupava l’intera metà orientale d’Europa
L’estrema antichità della Terra era fondamentalmente un’epoca di assoluto dualismo. Quando le placche continentali risultavano ancora unite in una singola entità e qualsiasi mappa fosse stata tracciata della superficie di questo pianeta avrebbe mostrato l’evidente contrapposizione tra il singolo altopiano e l’antistante pianura; l’entroterra, una lunga e frastagliata linea costiera; la foresta popolata di creature, la steppa desolata prossima alla desertificazione. E soprattutto, UN oceano, UN lago. Soluzione molto pratica all’incombente giustapposizione topografica, di cosa contrapporre ad una massa d’acqua che avvolgeva totalmente i globo destinato ad ospitare un giorno le multiformi civilizzazioni umane: questo era il vasto Tethys e il suo “minuscolo” gemello, Parathetys (o Paratetide, o Sarmatico) non molto meno salmastro e popolato di creature ad oggi oggetto di molteplici ipotesi contrastanti. Così definito per la prima volta nel 1924 dal geografo Vladimir Laskarev, che ne aveva teorizzato l’esistenza dall’osservazione di taluni strati di sedimenti risalenti all’epoca del Neogene (23,03 – 2,58 milioni di anni fa) in grado di sfidare la percezione per lo più unitaria degli ambienti appartenenti ad un talmente vasto trascorso della massa eurasiatica presa in esame. Il che non significava, d’altra parte, che qualcuno si sarebbe affrettato ad aggiornare le mappe pubblicate sui libri scientifici e di scuola, per almeno un altro mezzo secolo a venire. Poiché la presa di coscienza che un lago ci fosse non sottintendeva informazioni specifiche sulla sua forma e dimensioni, tanto che teorie molto diverse ebbero a succedersi per tutto il corso del secolo successivo. E fino al 2021 quando, finalmente, una ricerca approfondita avrebbe posto un significativo sugello a questa interminabile diatriba. Per l’iniziativa e i metodi impiegati da Dan Valentin Palcu, del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Utrecht, che per primo ebbe l’idea di applicare la moderna disciplina della magnetostratigrafia allo studio degli strati geologici rintracciati nella zona della penisola russa di Taman, che si avvicina nella parte settentrionale del Mar Nero alla propaggine orientale della Crimea. Così da rintracciare, attraverso una datazione conseguente dalla periodica inversione della polarità terrestre, l’intera storia pregressa del vasto territorio che incorporava, o per meglio dire conteneva, l’attuale bacino idrico di un tale asset strategico al centro d’innumerevoli conflitti fino all’era contemporanea. Unendola in quei tempi remoti con il Mar Caspio in quella che era una singola distesa in grado di estendersi fino alle Alpi da una parte, ed il mare di Aral dell’Asia Centrale dall’altra. Non è perciò alquanto stupefacente, ed al tempo stesso innegabilmente ingiusto, che il mega-lago Paratetide non sia mai effettivamente comparso, fino all’edizione attuale, negli augusti e celebrati elenchi del Guinness dei Primati?
Libellule a reazione: l’alato sogno biomimetico del tardo Reich
Nella visione prototipica di un tale scenario, il pilota veterano dagli occhi color cobalto sarebbe salito a bordo grazie all’uso di una ripida scala a pioli. Dalla “base” di decollo nascosta in una piccola radura della Foresta Nera, circondato dal febbrile lavoro della propria orgogliosa ed elegante equipe. Un gruppo di tecnici affiatati in uniformi nere come la pece, intenti a preparare in vari modi al decollo quello che sarebbe potuto sembrare a tutti gli effetti un razzo da impiegare per il bombardamento della capitale inglese. Se non che all’accendersi dei suoi motori, collocati insolitamente al termine di tre massicce “ali” o “rotori” l’oggetto poco incline all’identificazione avrebbe cominciato a roteare febbrilmente su se stesso, tratteggiando un arco acuto nel terso cielo della madrepatria. alla velocità di 1.000 Km orari I suoi cannoni minacciosi scintillanti di orgogliosa furia guerriera. E pronti a dirigersi cercando, parallelamente al suolo fino all’altitudine di 15.000 metri, la candida e fluorescente scia del motore nemico.
La figura del polimata, altrimenti detto l’uomo rinascimentale, ha visto prolungare il mito dell’apprendimento parallelo ed i traguardi che può consentire di raggiungere una mente aperta, con la prospettiva dell’artista che apre strade per l’innovazione tecnologica precedentemente sconosciute ai propri contemporanei. C’è una cosa, tuttavia, che Leonardo da Vinci e i suoi colleghi del mondo arabo ed asiatico non riuscirono mai veramente a realizzare, sotto qualsivoglia punto di vista rilevante al suo funzionamento ideale: l’effettivo e imprescindibile volo dell’uomo. Nonostante tali e tante macchine visivamente affascinanti, simili ad uccelli di universi fantastici, per la bassa tolleranza per gli errori che questo obiettivo tende ad avere. Ed è proprio qui, in maniera inevitabile, che s’infrange il sogno della funzionalità apparente, la bellezza in qualità di pratica realizzazione di un concetto. Dove inizia il timido terreno della specializzazione. Che forse mancava, nel settore specifico, al fisiologo comportamentale Erich von Holst dell’Università di Göttingen, destinato a rimanere famoso per il suo lavoro di ricerca compiuto verso la metà degli anni ’40 sul volo degli insetti, attraverso cui riuscì a mettere in relazione gli impulsi sinaptici dei gangli cerebrali con la vibrazione ritmica delle loro ali. E le conclusioni che ne avrebbe tratto, conseguentemente, l’ala progettuale Luftwaffe nel tentativo eroico di applicare tali metodi alla progettazione di un “invincibile” aeroplano. Erano anni selvaggi quelli, d’altra parte, e nulla sembrava irragionevole di fronte alla necessità d’invertire la tendenza disperata del conflitto europeo. Con l’Armata Rossa che avanzava da Oriente e i bombardieri alleati in formazioni inespugnabili, che sorvolavano la Germania bombardando ogni fabbrica o pista di decollo che potesse capitargli a tiro. Mentre l’elite al comando, notoriamente dedita all’utilizzo assiduo di droghe psichedeliche, dipendeva direttamente dalla figura di un führer sempre più convinto del mito autocelebrativo delle wunderwaffe, le “armi miracolose” destinate in qualche modo a cambiare le sorti di una guerra prossima alla propria inevitabile conclusione. Persone come l’ingegnere Otto von Pabst e il produttore di aerei von Halem, all’epoca figure di spicco all’interno del bureau tecnologico della compagnia aeronautica Focke-Wulf di Brema, che avevano conosciuto l’opera di Holst e visto con i propri occhi i modellini che costui aveva creato, di ornitotteri e libellule in legno di balsa capaci di sollevarsi ruotando freneticamente su loro stessi. Da qui l’idea: non sarebbe stato possibile, forse, portare un’idea simile fino alle più estreme conseguenze? Di un velivolo a grandezza reale, intesa come quella necessaria a sollevare un esperto d’intercettazione con tutti gli strumenti del suo mestiere. Per trasportare, ancora una volta, l’inferno in cielo prevenendo che potesse palesarsi invece tra le strade fiammeggianti di una Germania che si era condannata da sola….