All’altezza di poche decine di metri dal suolo, secondo una precisa direttiva stabilità da un calcolatore semi-analogico, il pilota sperimentale spostò in avanti le due manopole della potenza principali. Ciò causò un radicale cambiamento di assetto nell’aeromobile, mentre i portelloni sulle gondole all’estremità delle due corti ali si chiudevano, ed otto ugelli sottostanti smettevano di spingere in basso masse impressionanti d’aria. Nello stesso momento, mentre il terreno cominciava a scorrere al di sotto della grande cabina panoramica, gli ugelli degli impianti principali si riorientavano all’indietro, con una perdita di quota appena apprezzabile: la transizione era completa. Il bolide simile in tutto e per tutto a un’astronave, vibrando minacciosamente, aveva iniziato il suo viaggio ultrarapido verso il futuro.
È interessante notare come proprio la ricerca di standard operativi e dottrine in comune promulgate da un’alleanza di mutua assistenza come la NATO possa generare, in determinate occasioni, creazioni eccentriche che avrebbero potuto cambiare la storia dell’ingegneria bellica ma, per una ragione o per l’altra, non sono riuscite a farlo. Vedi il caso, a tal proposito, del terzo Documento per i Requisiti di Base o NBMR-3, creato all’inizio degli anni ’60 come contromisura nei confronti di uno dei timori più incombenti in caso di un tentativo invasione proveniente dal Blocco Orientale: quello che i Sovietici, nelle prime ore o minuti dell’ipotetico conflitto, potessero procedere a un bombardamento sistematico delle principali strutture aeroportuali situate nell’Europa Centrale. Dal che l’idea che il sicuro fronte di battaglia, la Germania dell’Ovest, dovesse dotarsi di una forza aerea che potesse fare a meno di estensive piste di decollo, essendo composta in massima parte da STOL e VTOL, velivoli capaci di decollare ed atterrare in situazioni tutt’altro che convenzionali. Un obiettivo che, in un iniziale momento, venne perseguito mediante l’ipotesi di adattamento dei Lockheed F-104 Starfighter di produzione statunitense già in dotazione ai piloti, aggiornati mediante l’aggiunta di razzi secondo i metodi del progetto ZELL (Zero Length Launch). Ma i precedenti esperimenti portati avanti dai britannici negli anni ’50 con la serie Hawker Siddeley P.1127, destinata a dare vita nel 1969 al cambio di paradigma che avrebbe preso il nome di Harrier Jet, avevano dimostrato che qualcosa d’infinitamente migliore poteva essere ottenuto lavorando partendo dai presupposti specifici, almeno per quanto riguardava il campo dei cacciabombardieri leggeri o intercettori per il combattimento aereo. Se non che la compagnia aeronautica Dornier, pilastro della Luftwaffe sin da epoche antecedenti al Nuovo Ordine della fine del conflitto mondiale, aveva a quel punto lavorato informalmente già da oltre una decade a vari modelli per un aspetto spesso trascurato del tipo di operatività risultante da un simile approccio ai conflitti volanti: il trasporto logistico del munizionamento e dei materiali. Avevate mai pensato, in altri termini, a un aereo da trasporto a decollo verticale? Se così fosse, siete davvero parte di un elite, visto che un solo esempio di questo specifico concetto, mai andato oltre lo stadio di prototipo, è stato costruito nel corso della storia umana. Ed il suo nome (o codice) è quello di Dornier Do 31. Le sue caratteristiche e la configurazione di volo superano, sotto molteplici aspetti, la comune cognizione di ciò che possa essere un “aereo”…
News
La torre di magma nel punto d’incontro tra gli emisferi terrestri
La montagna, nell’immaginario collettivo, dovrebbe essere costituita da una forma piuttosto prevedibile: una cresta nella superficie, il sollevarsi variamente obliquo della linea dell’orizzonte. Una sagoma sostanzialmente frastagliata, che si staglia contro il grande azzurro del cielo superno, gettando la sua ombra come il palcoscenico di una grande rappresentazione. E non, per quanto ci è dato comprendere, l’asse dritto e inconfondibile di una meridiana. Non la forma oceanica di una balena, che fuoriesce verticale dal velo dei flutti, trasparente grazie all’impatto traslucido dei raggi solari. Niente di simile, per avvinarci al nesso dell’intera questione, al Grande Cane dell’isola di São Tomé, nella poco estesa nazione isolana di São Tomé e Príncipe nell’Africa Occidentale. Il cui appellativo è localmente identificato in Pico Cão Grande, nella lingua portoghese di coloro che per primi, attorno al 1470, colonizzarono queste terre non così remote. A “soli” 225 Km dalla costa del Gabon, ma che a differenza di quest’ultimo non avevano minerali da estrarre, antiche civiltà di scoprire, i loro discendenti da deportare verso le accoglienti piantagioni del Nuovo Mondo. Ma piuttosto la fitta e ininterrotta copertura di una giungla virtualmente senza limiti, fatta eccezione per quelli delle rispettive coste, da cui emergeva l’occasionale caratteristica geologica degna di nota. Questo perché i due recessi emersi, e la costellazione d’isole più piccole che li circondano, hanno la caratteristica di occupare uno spazio sulla cosiddetta Linea vulcanica del Camerun, costituita dagli osservabili residui di una serie di massicci un tempo attivi che estende nell’entroterra fino alle acque del lago Ciad. E che in direzione opposta, nelle tiepide acque dell’Atlantico Meridionale, si è offerta di formare queste isole, inclusa quella principale situata grosso modo sulla linea dell’Equatore. Con il suo eminente grattacielo costruito dalla natura, che si eleva per 370 metri sul terreno circostante, raggiungendone ben 663 al di sopra del livello del mare. Compatto, attraente, appuntito bersaglio per schiere successive di abili alpinisti e freeclimbers, attirati dall’opportunità di cimentarsi in una sfida molto rara nell’interno novero del catalogo orografico del pianeta. Questo perché il Cane non è un duomo lavico, formato dalla lava che si è solidificata a seguito del raffreddamento del suo cratere, o altro simile fenomeno di protrusione solida prodotto dal sommovimento delle masse semi-solide al di sotto della crosta terrestre. Bensì l’esempio dell’eventualità più rara di un neck o “tappo” vulcanico, l’effettivo stampo negativo della forma di un cono condotto all’erosione, risultante dal suo nucleo interno maggiormente incline a resistere all’erosione. Nel dipanarsi di un fenomeno che è largamente alla base della sua forma quasi unica nel panorama del paesaggio globale…
Il singolo signore delle ombre dietro un palcoscenico che risplende
In una storia collegata alla fondazione stessa dell’antica dinastia degli Han, attorno al 202 a.C, il futuro imperatore Gao Zu si ritrovò circondato dai suoi nemici all’interno della città fortezza di Pingcheng. Quando tutto appariva ormai perduto, tuttavia, il suo consigliere Chen Ping venne a sapere di come il generale delle forze assedianti, Mao Dun, avesse dei problemi con la moglie, la quale sospettava che gli fosse stato infedele in diverse occasioni nel corso degli ultimi anni. Elaborando un piano degno dei più insigni strateghi del suo paese, l’aspirante sovrano pensò quindi di far costruire una serie di marionette, simili a prostitute, da far danzare sopra le alte mura dell’insediamento. Sul profilarsi del tramonto, viste da lontano, tali figure sembrarono a tal punto delle persone vere, da causare l’irritazione dell’augusta consorte, costringendo il temuto Mao Dun a ritirarsi. Verità o finzione, non è troppo difficile immaginarlo. Ciononostante questo aneddoto, redatto dallo storico Duan An’jie, sembrerebbe alludere a un qualcosa di estremamente specifico, e quel qualcosa altro non sarebbe che il teatro delle ombre cinesi. Permettendo di far risalire la sua storia ad un lungo e travagliato susseguirsi di oltre venti secoli a questa parte. Abbastanza per creare una forma d’arte alquanto distintiva e dalle molte diramazioni attraverso i vari periodi storici e regioni del Regno di Mezzo.
Una di queste, forse la più notevole ancora oggi praticata innanzi a un pubblico con cadenza più che regolare, risulta essere sostanzialmente collegata alla figura del suo celebre praticante, Fan Zheng’an, nato nel 1945 a Tai’an, nella regione dello Shandong. Non troppo lontano da quell’eponima e sacra montagna di Tai, tradizionalmente associata a un’importante scuola della rappresentazione scenica grazie all’utilizzo delle marionette bidimensionali, caratterizzata dal coinvolgimento di un singolo, versatile praticante. Ovvero lui, che interpreta con la sua voce ciascun singolo personaggio. Lui che preme con il piede sul pedale dei tamburi e cimbali dell’accompagnamento musicale. E soprattutto lui, senza nessun tipo di assistenza, che solleva ed anima con le sue mani fino a 12 pupazzi allo stesso tempo. Senza che l’energia espressiva del racconto ne risenta in alcuna risibile maniera, ma piuttosto infondendo, nell’intera circostanza, tutta l’arte ed il coinvolgimento fisico di quei momenti. Con un’abilità ed esperienza tali da essere stato nominato, nel 2011, parte del patrimonio culturale immateriale della Cina stessa, pochi anni dopo aver inscenato parte del suo repertorio innanzi ai membri riunitisi in congresso del Partito Comunista a Pechino, incluso il primo ministro Wen Jiabao. Forse il punto più alto di una carriera lunga decadi, ma che ancora oggi pare ben lontana dal suo tramonto…
L’attento sguardo della scimmia con la coda da scoiattolo e il cappotto di lana
Bianco e nero, opposti che si attraggono. Nell’epoca della creatività artificiale, ossimoro tra i più possenti giunti ad acquisire rilevanza nel momento contemporaneo, sempre più diffuso tende ad essere l’accostamento tra un qualcosa di mondano, ludico o popolare, con i grandi nomi dell’alta moda internazionale. Così che la macchina, il computer che ogni cosa macina e risputa in base agli input ricevuti dai famelici utilizzatori, ne gestisca l’indice delle computazioni, generando l’ambiziosa gestalt di un modello in grado di affascinare. Particolarmente diffuso in quel particolare mondo delle immagini, risulta essere il cosiddetto influsso di Balenciaga. Cristóbal, per essere più precisi, diventato nell’immaginario collettivo il principale testimonial di un approccio alla bellezza formale ed elegante, distinto, sofisticato. Per non parlare modelli dall’imponenza e prestanza fisica superiore alla media. Perciò prendete adesso, come esempio, la figura iconica di un cebu cappuccino, la riconoscibile scimmietta platirrina dello Honduras e del Brasile. Chiedendone la mescolanza col suddetto approccio digitale alla combustione dei confini tra i settori dello scibile, cosa è comparso? Oh, ne sono certo. Niente di così diverso… Da questo! Pithecia pithecia o saki dalla faccia bianca, fatti avanti! Originario del Brasile, la Guyana, il Suriname ed il Venezuela, questo primate della cima della giungla non più lungo di 70 cm può essere riconosciuto a distanza, per la sua affinità a vivere ad oltre 20 metri d’altezza, dormendo acciambellato sui rami come un gatto. E nel caso dei maschi adulti, un’impressionante livrea completamente nera con il volto circondato da una maschera dal candore lampante. Laddove ulteriori tratti, comuni ad ambo i generi dalla pronunciata diversità cromatica, includono la lunga coda ricoperta da una folta peluria, tenuta normalmente pendula in quanto priva di alcun tipo di muscolatura prensile per aggrapparsi alla canopia. E un manto dalla peluria tanto fitta da indurre l’impressione di una provenienza dalle alte montagne o i recessi più gelidi della Terra del Fuego. Il che non corrisponde d’altra parte a verità ecologica, lasciando intendere quanto possa essere, talvolta, imprevedibile l’evoluzione degli animali. In tale aspetto ma non altri, visto il modo in cui l’amico è solito nutrirsi, muoversi ed organizzarsi la giornata. Creatura relativamente piccola e per questo vittima di un ampio ventaglio possibili di predatori, il saki è molto poco incline a scendere al livello del suolo, eventualità comunque scongiurata da una dieta composta quasi esclusivamente di frutti e semi. Fonti di fibre tanto resistenti, nella loro frequente accezione sudamericana, da richiedere l’impiego di una dentatura tanto aguzza da lasciar pensare a un pipistrello vampiro, mentre sgranocchiano in maniera fragorosa la scorza impenetrabile di cose come lo sprenciolo, più comunemente detto noce brasiliana. Il che non può prescindere del tutto, ad ogni modo, l’occasionale assunzione di proteine, ingurgitate grazie alla cattura ed assunzione di grossi insetti, piccoli mammiferi e pulcini, agguantati con una voracità e spietatezza che potrebbero sembrare quasi umane. Per non parlare dell’occasionale e già sopracitato chirottero, catturato con tutta la sua famiglia mentre dorme negli alberi all’interno della sua tana…