L’oceano metallico dei pesci a serratura

The Deep

C’è un singolare merito, oltre alla bellezza scenografica, nei corti animati dell’artista americano PES – al secolo Adam Pesapane, nato nel ’73. L’immediatezza del metodo creativo. L’atmosfera è rimediata, casuale nelle procedure di trasformazione di ciascun elemento della scena. Stavolta poi, che scena! Proprio là, nel mezzo delle più profonde tenebre marine, dove si percepisce il mondo soltanto con metodi particolari, dalle sue poliedriche invenzioni visuali, pesci e bestie misteriose, sfugge un guizzo di verismo che non può che provenire dall’interno; dell’anima ribelle, della mente anticonformista o della discarica sommersa, luogo in presunta opposizione verso l’immanente mondo naturale. Di un’introduzione, tanto per cambiare, non v’è traccia. E senza circostanze, resta solo l’immaginazione.
Non si sa come, né perché, le pinze nuotano nell’acqua torbida, piantate dentro ad un morsetto. Così è, la cernia, in questo mare d’eccedenza dal mondo della logica comune. Senza un suono, si nutre d’invitanti “alghe” dentellate, ingranaggi di un sistema mai studiato; sullo sfondo, scorrono le chiavi, chiavette o sardine, stranamente bio-luminescenti. Dissolvenza. Un batrace di stoviglie che placidamente rasenta le catene. Alghe? Chi può dirlo? Di nuovo dissolvenza. E sguisciano desuéti compassi metallici-barra-meduse, sommersi come quello utilizzato dal divino Sir Isaac Newton, nella stampa allegorica di William Blake (1757 – 1827), poeta, filosofo nonché dichiarato maestro storico di questo autore, il nostro genialoide PES. Che quivi ce ne ha messe molte altre, di cose metalliche (per niente arrugginite). Strumenti musicali, tenaglie, attrezzi a pappagallo e robuste chiavi inglesi. Ciascuna trasformata in una fiera abitatrice d’acque scure, tanto lugubri e tombali. In un’intervista, pubblicata sul portale Motiongrapher, ci racconta del metodo usato per creare tale suggestiva ambientazione: pochi effetti digitali, forniti dal collega Wolfgang Maschin dello studio dei Demiurge, e poi molte particelle di polvere, ripresa in più passaggi sopra un telo nero, con messe a fuoco differenti. Tutto è analogico con PES, spontaneo, come fosse un gioco. Da bambini – personalità che abbiano, soprattutto, un gusto sviluppato per l’insolito, voglia di sorprendere vetuste percezioni soggettive.

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Scaldare casa usando quattro candeline dell’Ikea

KeepTurningLeft

Nel gelo apocalittico della notte di Natale, circondato da zombie famelici e grosse alci radioattive, Will Von Scroogen spense con risolutezza la caldaia della sua baita di montagna, alimentata dalle costose bombole di gas GPL compresso: “Eeh, no! Ogni centesimo risparmiato, tanto di guadagnato”. Non si capacitava, il più anziano e avaro degli uomini d’affari pseudo-dickensiani, di dover continuare a spendere per la sopravvivenza della canticchiante umana società. Rappresentata, oramai, soltanto e solamente da se stesso. Tutti quei fastidiosi orfani, sperduti per le strade, che tendevano la mano per un’impareggiabile decino. E i cani randagi, con i loro grandi occhioni, silenziosi postulanti d’affetto e qualche prezioso croccantino. Passati a miglior vita (pensava) orfani e cani, riuniti dalle avversità del fato, restava solo lui: e allora dai a spendere, dannazione! Una bombola dopo l’altra, cento e mille scatolette…. “Il cibo te lo devi guadagnare, mica cresce sugli alberi!” Rivolgendosi a stesso diceva cupamente, l’ultimo misantropo di questa Terra, detestando i suoi bisogni. Mentre bestie siderali, provenienti dalle lune di Saturno, strisciavano per la foresta, ululando, e i vermi saprofagi, tanto privi d’occhi quanto di pietosi sentimenti, insidiavano le fondamenta di quella piccola casetta, sopravvissuta, per miracolo, all’imprevista catastrofe globale. Ergo lui, felice, spegnendo il suo riscaldamento, risparmiava. -15 gradi, le finestre, gradualmente, iniziavano ad appannarsi.  L’orologio bronzeo batté l’una di notte. “Finalmente!” Pensò quindi, semi-adagiato sulla sedia a dondolo del nonno, nel buio quasi completo, la doppietta nascosta sotto le rigide coperte, senza uno straccio di cartucce, perché lui era troppo avaro per spararle. E già si chiudevano i suoi occhi, un po’ per l’auto-soddisfazione, in parte per un principio d’assideramento, quando s’udì dal vicino ripostiglio un suono, come un colpo di tosse cavernoso. “Soo-no lo spii-rito dei Natali passa-ti”. Ora che vuole, questo qui! Pensò il vecchietto, infastidito, gettando da parte le povere coperte. Tenendosi ben stretto il suo fucile, fece due passi, aprì le solide ante di legno lavorato. Pagate, all’epoca, bei dollari sonanti. E sul fondo dell’angustissimo stanzino, la faccia splendida, gli occhi stolidi, con cappello e stella di sceriffo, fieramente lo fissava: Chuck Norris. La tenebra, d’un tratto, prese una piega inaspettata. “Buongiorno, anziano terribilmente arido, privo di risorse. Nella notte in cui tu affronti la prova più terribile, son giunto per portarti un lauto dono. Vedo che hai l’arma scarica, mmm!” E così dicendo, dalla sua lunga barba, quel mistico figuro tirò fuori una katana. “Con questa, sappilo, non finirai mai le munizioni” Cavolo, pensò Will. “Sai che risparmio!”

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Mangiando hamburger con la bocca chiusa

Liberation Wrapper

Sopra la porta del tempio di Tōshō-gū, a  Nikkō, in Giappone, da quattro secoli ci sono tre scimmiette del tutto denutrite. Non mangiano panini. Né patatine fritte, né tantomeno le banane. Non si muovono e non producono alcun suono. Di una simile abulia però non c’è molto da stupirsi, visto che sono -ohibò!- di legno. Questi sono i loro nomi: Mizaru (non vede) Kikazaru (non sente) Iwazaru (non dice). Sono famosissime. Le troviamo raffigurate nei fumetti, sui libri e sui diari, nelle agende e appiccicate, come adesivi, alle carrozzerie di molte auto, avviate per le strade più diverse. Il Mahatma Gandhi, che notoriamente rifiutava ogni forma di possesso, era solito conservarne una piccola riproduzione statuaria, da contemplare. Ed è sorprendente l’importanza che può avere una simile minuzia, nella vita di una figura storica importante. Perché ci ricorda che il cervello umano lavora per immagini ultra-chiare, o per meglio dire: icone. La gestualità delle tre scimmie, ciò che fanno con le mani, è una potente allegoria. Il cui significato, come spesso capita, può venire diversamente interpretato. Le tre dottrine principali dell’Estremo Oriente, confuciana, taoista e buddhista, concordano su questa versione: Mizaru non vede (il male), Kikazaru non sente (il male), Iwazaru non dice (il male). Per il resto, tutto OK. Sono, queste scimmiette collettivamente note con il termine Sanzaru, una metafora personificata di animale probità, preziosa proprio nel suo essere fine a se stessa. La cultura popolare d’Occidente, che non può fare a meno di chiedersi “Perché lo fanno?” Di questi tempi vi ha costruito sopra uno stiléma, spesso ripetuto. Nei drammi criminali, tra prigioni e aule di giustizia, anti-eroi di dubbia moralità le invocano imitandole scherzosamente, a suggestione d’omertà. “Una mano lava l’altra, bro! Oh, qui nessuno ha visto nulla, stai tranquillo!” Come al cinema, nei videogiochi. Succede pure in GTA 5. E per un attimo persino Trevor, il più squilibrato degli alter-ego ludici di quel settore, smette rispettosamente di parlare.
Vorrei aggiungere la mia versione. Perché nel caso della terza scimmia, quella che si copre la bocca, c’è uno spunto d’approfondimento. Fin dall’epoca di Nara (710– 794) sussiste in Giappone il più curioso dei pensieri. Che i denti umani siano brutti, a vedersi; o quanto meno, ineleganti. Per questo la moda dei nobili di corte, nel periodo immediatamente successivo, imponeva che si tingessero di nero. E i samurai portavano un ventaglio, per coprirli, o usavano la manica del kimono. Ancora oggi, di una simile stranezza culturale, se ne vedono gli effetti, però ridotti al solo mondo femminile, più affine al concetto universale di graziosità. E come si usa dire: “Monkey see, monkey do…”

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L’esploratice trasformabile del web

IE Tan

Fra schermi e processori, ventole o condensatori, l’utente diventa un ingranaggio del sistema, soprattutto nelle grandi aziende. Tecnologia: il mondo dell’assoluta razionalità, logico e coerente. Così le personalità creative, esplorandolo, devono portare l’uniforme. Ogni cosa è specializzazione. Il montatore video professionaista non effettua le riprese. Chi fa il ritocco di una foto difficilmente l’ha scattata, colui che impagina, in genere, non costruisce siti (tagli al personale permettendo). E in fondo poi, perché? Se guardi gli spazi online di un gestore telefonico, di un grande magazzino ecc…Confrontandoli con le rispettive brochure o manualetti, non è che cambi poi moltissimo. C’è un intestazione –pardon- la head, ci sono riquadri geometrici con immagini e figure –pardon- i banner e il testo, molto testo, schede tecniche o piantine. Lo fai su carta, piuttosto che su schermo, il risultato è del tutto simile o persino uguale…Si e no. Ciò che cambia resta dietro, invisibile agli utenti. Per produrre il web occorre programmare in più linguaggi, adattarsi a degli standard contrapposti. Diciamolo, la colpa è pure sua. Ebbene si, di questa ragazza! Per anni la giovane guerriera, in qualche città del distante Oriente, era cresciuta lontano dai nostri riflettori virtuali, fino a quest’età fatidica della prima adolescenza. Ci aveva reso la vita difficile, col suo modo astruso d’interpretare l’HTML. Oggi è finalmente qui, iper-agguerrita, e ha gia trovato i suoi nemici senza volto né pietà, rigorosamente dotati di occhi minacciosi e bioluminescenti. Malware? Virus? “Cavalli” dei greci digitali, latòri di dubbiosi doni? Chi può dirlo. Stiamo parlando, comunque, di Inori Aizawa, la figlia segreta di 2chan e di Clippy (quella saccente graffetta che abitava in fondo a ogni pagina di Word). L’ultima mascotte di una compagnia che fra tutte, storicamente, è sempre stata quella più incapace di produrre la sua valida mascotte: l’onnipresente, l’eterna Microsoft.
Nessun ambito si muove per strade parallele, ciascuna indipendente dalle altre; così è anche questo, del mondo virtuale. Come sono i professionisti, così anche gli stereotipici utilizzatori occasionali. Tutti uguali. Siccome di questo concetto, l’uniformità, si è fatto il perenne termine paragone e fondamento  commerciale, oggi siamo al parossismo di un’imprescindibile faziosità. Che viene considerata buona e giusta.  L’utente ideale, per uno dei maggiori browser, sarebbe un po’ come un soldato. Specializzato nel suo ruolo, fedele a un ideale, soprattutto: quello di un potente logo. Ma che noia queste mele morsicate, Pokéball multicolori (cromate) e/o bussole bluastre da safari! Soprattutto, perché dovrei cliccare su quella vetusta “e” minuscola, con appena un accenno agli anelli di Saturno, per di più offuscata da una pessima reputazione (soltanto parzialmente motivata) di lentezza funzionale e incapacità interpetativa. Ora che Internet Explorer si rinnovi. Anzi, che affronti la sua vulcanica trasformazione. Verso la notte dei super-eroi nipponici, evoluzionisti per necessità, di grandi battaglie postumane. Verso le misteriose allegorie robotiche e il Futuro.

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