La pregevole armatura che segnò la fine della tradizione dei tornei cavallereschi d’Inghilterra

L’incredibile assembramento di prestigio e simboli di una ricchezza tracotante era il fluido vitale di quel particolare tipo d’organizzazione sociale, in cui la discendenza di una singola famiglia aveva il compito, ricevuto da Dio in persona, di traghettare una nazione lungo il corso delle epoche in tempesta. L’istituzione della monarchia possiede d’altro canto il merito innegabile, persino oggi, di mantenere un legame privilegiato tra il popolo e la propria Storia. Ma c’è un rischio. Poiché i drammi personali di qualcuno, tendono rapidamente a diventare un lutto per la collettività indivisa. E la maniera in cui gli eventi prendono una piega inaspettata non sempre, né da qualsivoglia angolazione prevedibile, consentono di risalire la gravosa china di un dirupo senza luce o vie di fuga sul fondo. Se c’è stato un simile punto di svolta, nella storia della dinastia britannica degli Stuart, esso può essere d’altronde rintracciato nella fine prematura dalla breve, ma influente vita di Enrico Federico, principe del Galles. Il figlio primogenito con Anna di Danimarca di Giacomo VI e I, la cui doppia numerazione rispecchiava l’encomiabile destino ricevuto di unificare finalmente Scozia ed Inghilterra, che a sua volta ed all’età di soli 18 anni era già diventato un cardine dell’immagine pubblica dei reali, per la sua reputazione impeccabile nel campo delle arti, della caccia e naturalmente, i tornei. All’epoca della sua nascita nel 1594 una stimata tradizione, l’ineccepibile maestria mostrata dai potenti nell’impiego della lancia, del cavallo e di ogni sorta d’altro implemento guerresco, affinché restasse bene impressa nella mente la prerogativa che essi avevano, di condurre i conflitti con l’esempio e la disposizione a mettersi personalmente a rischio sul campo di battaglia. Una visione delle cose del mondo che avrebbe potuto dirsi ancora all’apice soltanto mezzo secolo prima, durante il complicato regno di Enrico VIII, spietato con la sua famiglia almeno quanto sapeva esserlo all’insegna dei nemici del regno, che più volte avrebbe affrontato a viso aperto, se soltanto non fosse stato coperto da una pratica quanto impenetrabile visiera. E le sue armi e vestimenti guerreschi, assieme a quelli dei contemporanei, adornano tutt’ora regge e residenze della Gran Bretagna, continuando ad aumentare il prestigio inerente di coloro che sarebbero occupato in seguito quel trono importante. Ecco dunque nella grande sala che costituisce l’ingresso del castello di Windsor, qualcosa di straordinario: l’aspetto stesso, completo in ogni sua parte, che il giovane figlio di Guglielmo avrebbe indossato per la grande fiera dei potenti all’inaugurazione del grande momento. In cui conti, duchi e cavalieri avrebbero di nuovo dato un senso alle profonde implicazioni della propria carica. Rischiando l’incolumità dei propri arti ed organi soltanto per l’inseguimento di quell’ineffabile tesoro, il Prestigio…

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Sognate serpenti, disse la falena. Sarà nettare, la lacrima che bagna piume dormienti…

Incubus è il nome di creature che soggiogano i pensieri vulnerabili, si aggirano nel buio alla ricerca di sinapsi da fagocitare con le proprie bocche simili a proboscidi uncinate notturne. Mostri della fantasia dell’uomo, che risiedono dove la fantasia è reale; in quello spazio tra il sonno e la veglia in cui qualcosa si agita dinnanzi alle nostre pupille. Abbastanza solido, sufficientemente tangibile perché l’idiosincrasia diventi carburante dello spostamento tra i regni. Di un’infinità di universi possibili, tutti egualmente terrificanti. Ed Incubus è anche il soprannome, liberalmente assegnato online, ad una particolare categoria di esseri soggetti a metamorfosi, creature che strisciano verso il tramonto, si librano quando la Luna è alta ed in prossimità dell’alba, prima di cercare con chi riprodursi, suggono la risultanza dell’altrui perdita transitoria di coscienza. Sono di volatili diversi, figli di una discendenza più antica, dinosauri che da tempo hanno raggiunto la grandezza di un chihuahua. Per poi continuare a rimpicciolirsi. Finché sopra un ramo di quella foresta in Sudamerica, non dorme appollaiato il Tamnofilide o antbird dal mento nero, passeriforme lungo una dozzina di centimetri che si ciba abitualmente d’insetti tra cui formiche, ragni e beh… Farfalle. E che non penserebbe mai, durante le ore di veglia, di ritrovarsi a dare nutrimento ai suoi stessi ancestrali nemici. Semplicemente, piangendo! Una scoperta non del tutto sorprendente, pur essendo infusa di un carattere decisamente surrealista, quella fatta dal naturalista Leandro Moraes qualche anno fa nell’Amazzonia, ove scorse con i propri occhi la questione in corso d’opera. Il frangente senza precedenti registrazioni note, di un lepidottero posato sulla testa dell’uccello ormai sopito, che succhiava in mezzo alle palpebre dal pozzo umido del bulbo oculare contenuto all’interno. Gesto alquanto terribile a vedersi… Eppur totalmente privo di conseguenze; se è vero che il pennuto non soltanto evitava di ribellarsi. Bensì mancava, addirittura, di risvegliarsi!
È una tecnica ben collaudata, d’altra parte, quella della erebide del genere Gorgone, qui documentata in una pratica d’insetti vari che già sapevamo coinvolgere mammiferi, rettili e persino persone. Il cui nome sufficientemente descrittivo risulta essere “lacrimofagia”. Mangio tristezza in altri termini, o più semplicemente la conseguenza collaterale dell’azione umettante, che ogni essere dotato di organi per la vista ben conosce come necessariamente continuativa per l’esigenza protettiva dell’organismo. Risultando al tempo stesso, così deliziosamente salmastra, tanto saporita e gustosa

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Oh, maestro del poliporo di Transilvania! Degno artigiano del fedora fungino!

Camminando lieve sul tappeto di foglie, udendo augelli che denunciano il passaggio dell’autunno, mentre ombreggiano le foglie i fili di vegetazione sovrapposta, ebbi a chiedermi: non sarebbe forse un ottimo proposito, da ogni punto di vista una gran cosa, se il tragitto dei pensieri intersecasse il mutamento di ogni cosa circostante? Se sinapsi cogitanti nel profondo di tale calotta, più che fredda nella tersa aria delle alture d’Europa, diventassero silvane ovvero parte di quel mondo mai tangibile, sempre selvaggio, così alieno all’urbana moltitudine vociante dell’altrui clamore? Ma il cranio non è mai al sicuro, dalla pioggia, vento e neve, se non è coperto da quel nobile indumento. La cui fonte tende ad essere purtroppo il frutto dell’industria inquinante. Oppure… No.
Amadou è il nome di un antico materiale, che proviene da una fonte che sussiste nell’ambiente privo di persone. Un fungo non del tipo nato in seguito alla pioggia, in timidi anelli semi-nascosti tra le erbe. Bensì fiero ed altezzoso, sopra i tronchi che insistentemente infesta, con le proprie ife che perforano cortecce, come fossero panetti di morbido burro da cucina. E suggendo come un parassita il ricco fluido che giace all’interno, assumono la linfa d’albero facendone benzina per il proprio metabolismo. Tante mensole che crescono, morbide e poi dure in mezzo alla penombra. Ma è nel mezzo tra i due estremi, che diventano il tesoro di chi giunge col progetto chiaro e un appropriato cesto da raccoglitore fungaiolo. Sia chiaro: non con fini alimentari. Giammai possa sembrarvi valida l’idea, di consumare il Fomes fomentarius alias “fungo dell’esca del fuoco” il cui uso come letto di scintille fin da tempi avìti è contenuto in tale nome programmatico, nonché dimostrato dal trasporto in una borsa di quel cavernicolo trovato sulle Alpi Venoste, Ötzi congelato in mezzo ai ghiacci sempiterni della Preistoria. O per meglio dire, uno degli utilizzi possibili, giacché lo stesso Ippocrate, grande medico del V secolo a.C, parlò estensivamente delle sue capacità di arresto ematico, ovvero fungere da bendaggio in grado di arrestare le emorragie. Così come in Cina si era soliti attribuirgli la capacità di allontanare il cancro gastrointestinale, se bevuto in forma di tè. E che dire degli amanti della pesca, che in tempi recenti hanno imparato a farne uso per asciugare le mosche artificiali da usare come esche nei fiumi? Ancorché persista in altri luoghi, l’antica idea che sia perfetto come fonte di un pregiato materiale. Essendo in grado, se trattato con il giusto metodo, di trasformarsi in strisce di cuoio del tutto simili a quelle di provenienza animale. Diventando l’ideale parte costituente di borse, accessori decorativi. Ma soprattutto dei fantastici, distintivi copricapi adatti ad ogni clima e temperatura…

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Le ali nella spazzatura che riemergono grazie agli uccelli anamorfici di Tom Deininger

Nasce, cresce, si trasforma. Vola, viaggia, piomba sul bersaglio. L’arte che fluttua e si agita nell’aere, su correnti ascensionali che costituiscono il prodotto alternativo della società. Civile, si, da un vasto punto di riferimento. Razionale. Ma anche poco avvezza a mettere su un piedistallo quella serie di concetti e accorgimenti che costituiscono le plurime sfaccettature di un sistema sostenibile ad oltranza. Un’epoca che non distrugge se stessa, non annienta fino all’ultima scintilla di speranza che sussiste nel suo presente. Perciò ben venga l’atto di chi sdrammatizza e riconquista. L’opera di colui che, alle prese con l’oscurità, guarda verso la luce e tenta in qualche modo di mostrarci la via giusta per sbucare dall’oscurità della caverna. Thomas Deininger del Rhode Island (Norwell) a poca distanza dalla città di Boston, è uno di costoro, come chiunque può notare avendo l’opportunità di scorgere una delle sue opere compiute, cui d’altronde sembra mancare ancora qualche cosa d’importante: l’anima intangibile che è sinonimo poetico dell’esistenza. Sebbene ne possiedano, a ben vedere, di un diverso tipo che può essere toccato, manipolato, interpretato in molti modi allo stesso tempo. Prendete, per esempio, uno dei suoi molti corvi, merli, pappagalli. Sculture tridimensionali messe al centro di un riquadro monocromatico, e frequentemente presentate al pubblico attraverso un punto consigliato per osservarle. Questo perché, come un miraggio della Fata Morgana al centro di un deserto riarso, basterà spostarsi innanzi per scoprirne l’improbabile segreto. Scovando l’assoluta moltitudine, in quella gestalt che in origine sembrava presentarsi come un unico insieme. L’avrete certamente visto, a questo punto: lui è quel tipo di creativo che raccoglie oggetti di recupero un po’ qui, un po’ lì (egli stesso è solito chiamarsi: “artista della spazzatura”) per poi usarli come materiale utile a creare l’ultima visione scaturita dai complessi labirinti della sua fantasia. Primariamente figurativo, ossia abile nella raffigurazione iconica di soggetti esistenti, soprattutto animali, la sua forza espressiva risiede primariamente nell’impiego di un ben collaudato sistema. In base al quale gli oggettini colorati, i vecchi giocattoli, i ritagli di reti o recinzioni vengono laboriosamente messi in posa ed incollati mediante l’uso di grandi quantità di colla a caldo. Secondo uno schema attentamente progettato, che è diretta risultanza di molteplici e reiterati tentativi di perfezionamento. Sostanzialmente una sorta di proiezione, concettualmente non dissimile dal metodo delle ombre cinesi. Con una significativa, tutt’altro che sottile differenza: la predisposizione ad essere ammirato in piena luce, affinché l’esatta scelta di colori e sfumature donino all’oggetto risultante un fotorealismo quasi impossibile da prevedere nel momento in cui aveva appoggiato la metaforica prima pietra dell’intricato edificio situazionale…

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