La fortezza millenaria costruita per la api tra le vette dell’Arabia Saudita

Ogni civiltà, ciascun insediamento umano è la collettiva conseguenza di un processo, l’elaborazione di un sistema che funziona grazie a un qualche tipo di motore. Un’industria, una versatile risorsa, la capacità di acquisire ricchezze grazie all’operato di altri. O altre… Creature. Può in effetti capitare, in determinati luoghi e periodi storici, che l’impianto tecno-pratico in questione possa emettere un ronzio, non del tutto dissimile da quello di un mezzo elettrico moderno, sebbene moltiplicato per centinaia, migliaia di volte. È il verso prototipico degli imenotteri, le api tradizionalmente messe sopra un piedistallo per il massimo profitto, e inesauribile vantaggio dell’umanità. Sfruttate per quanto possibile fin dall’epoca del Bronzo, essendo stata un’importante fonte di cibo per i sudditi dei Faraoni d’Egitto, come testimoniato da pitture parietali nei templi, e in Mesopotamia come narrato sulla stele reale della regione di Suhum. Con i primi esempi di alveari costruiti dall’uomo databili al 900 a.C, fabbricati con argilla e paglia nella valle del fiume Giordano. Concettualmente non dissimili dai kawarah, contenitori per le api ancora in uso nel Mondo Arabo medievale, un termine che significa letteralmente “abitazione di fango e/o giunchi”. Non che tutti in quel particolare contesto storico fossero simili praticare l’apicoltura grazie all’uso degli stessi spazi deputati, come reso particolarmente esplicito da una serie di fotografie scattate presso il governatorato a sud-est del paese di Maysan, lungo l’alta cordigliera della montagne del Sarawat. E pubblicate con un breve articolo d’accompagnamento a fine luglio dalla testata digitale Arab News, che identificava tale scene come appartenenti al villaggio montano lungamente abbandonato di Kharfi. Una prova architettonica di quanto fosse importante e ben custodita la produzione del miele per i lunghi secoli trascorsi, considerata l’edificazione di un tale monumentale complesso scolpito nella pietra. Da ogni aspetto rilevante una versione su scala ridotta (meno di quanto si potrebbe pensare) di un moderno condominio multipiano, in cui ogni singola “finestra” è tuttavia un pertugio, dove originariamente le fedeli api produttrici dell’insediamento risiedevano, doverosamente sorvegliate da una torre d’avvistamento posta in posizione di preminenza, da cui ogni eventuale assalitore o ladro potesse essere ragione di dare l’allarme. Un tipo di fortezza, perché innegabilmente di ciò si tratta, che i limitati dati disponibili in materia attribuiscono a una singola famiglia intenta a tramandarsi il mestiere attraverso le generazioni, così come l’importante ruolo di proteggere il fondamentale pilastro agricolo delle proprie genti. Impresa dolorosamente andata incontro al fallimento, in qualche minuto pregresso del lungo corso della Storia, se è vero che oggi solo il vento, e qualche ape selvatica soltanto di passaggio continuano a risuonare negli oscuri pertugi dell’antica roccia scolpita dall’uomo…

Alla domanda sulla popolarità del sito che potrebbe recitare: “Perché adesso?” è d’altra parte facile trovare una risposta. La solita, in un certo senso, quella collegata alla compilazione delle liste dell’UNESCO, per le quali il villaggio di Kharfi assieme ad altri della regione costituiscono l’oggetto della proposta datata a gennaio di quest’anno da parte della delegazione del Regno Saudito, con tanto di riferimento letterario alle opere del geografo e filosofo greco Strabone, che nel primo secolo a.C. definiva la produzione di miele come una delle principali e più pregevoli esportazioni della vasta area nota nel mondo latino, per antonomasia, come Arabia Felix. Ed è tutt’ora chiaro d’altra parte come tale industria rivesta un’importanza significativa nell’ambiente relativamente sopraelevato delle pendici del Sarawat, dove temperature relativamente più basse permettono la crescita di fiori selvatici appartenenti ad oltre 50 specie distinte, tra cui i maggiormente diffusi includono la ruta, il basilico, la majorana e la lavanda. Particolarmente apprezzate dalla sottospecie d’imenottero volante più diffusa localmente, appartenente alla genìa Apis mellifera jemenitica, inerentemente più adattata al clima torrido e arido della principale penisola mediorientale. Ma nulla di tutto questo sarebbe stato sufficiente a mantenere operativa una centrale del miele con milioni di api concentrate come quella di Kharfi senza un’adeguata partecipazione della mano dell’uomo, usata per costruire spaziosi terrazzamenti atti a incrementare la quantità di nettare disponibile non senza dimenticare l’occasionale coltivazione istituzionalizzata di cereali o piante da frutto, perfettamente sufficienti a mantenere una dieta equilibrata e varia. Una mansione che possiamo desumere svolta con innegabile efficienza tecnica, come possiamo supporre sulla base della complessità costruttiva degli apiari presi in considerazione dall’UNESCO, funzionali risultanze di scalpelli esperti e piastre bilanciate di arenaria poste orizzontalmente, dello stesso tipo utilizzato per costruire le case della regione, ma sostenute e stabilizzate ulteriormente in questo caso da pesanti pilastri incastrati nella montagna. Particolarmente soddisfacente anche l’economia e simmetria delle forme geometriche, che vedono i diversi emicicli di questo vero e proprio “teatro” egualmente distanziati, probabilmente al fine di semplificare le operazioni regolari di prelievo del prodotto finale. Non che salire fino agli scalini superiori dovesse essere in alcun modo facile, né privo di pericoli inerenti. Tanto che viene ancora consigliato, agli eventuali e senz’altro infrequenti turisti, di tenersi a debita distanza dalla struttura, non soltanto al fine di proteggerla ma anche evitare il verificarsi di infortuni in territori tanto remoti. Le cui conseguenze, è facile immaginarlo, potrebbero anche dimostrarsi gravi.

Un’altra testimonianza fotografica degli alveari scolpiti nella pietra di Kherfi compare nello studio scientifico del 2011 di Alqarni, Hannan et al, dedicato alla storia dell’apicoltura saudita.

Considerata ancora oggi una primaria fonte di reddito nonché origine di un’ingrediente fondamentale nella gastronomia locale, la produzione di miele saudita grazie all’impiego soprattutto di api appartenenti alla specie A. m. jemenitica corre attualmente su due strade parallele. Una più moderna, incentrata sull’utilizzo degli alveari modulari di tipo Langstroth introdotti nel XIX secolo, la cui resa significativa permette di mantenere i prezzi ragionevolmente in linea coi prodotti d’importazione. E la seconda considerata come industria del miele tradizionale, che pur non potendo più contare su centri monumentali come quello di Kherfi, utilizza tutt’ora spazi per le api ricavati tramite approcci artigianali da tronchi cavi, spesso trasportati tramite autoveicoli attraverso le regioni stagionalmente più idonee alla prosperità delle loro abitanti. Verso l’ottenimento di un letterale oro traslucido dal grado di viscosità e sapore considerati migliori, tanto da giustificare un costo al compratore che supera di molto le alternative normalmente disponibili al supermercato.
Il che può essere inserito, in linea di principio e con ampia motivazione economica di profitto, in quella che potremmo definire come la missione più importante in campo ecologico delle generazioni a venire: la conservazione del fondamentale rapporto di mutua assistenza tra innumerevoli piante e le loro impollinatrici vitali, le api. La cui eventuale e non così remota estinzione, nella maniera ripetuta con enfasi mai davvero bastante allo scopo, potrebbe avere conseguenze deleterie sulle prospettive future di ogni singolo essere vivente di questo pianeta. Per cui le ultime fortezze contro l’entropia, oltre a difenderci dagli zombies nella maniera tanto apprezzata del moderno cinema catastrofista, potrebbero tornare nuovamente utili alle nostre vecchie schiave ronzanti, indispensabili prima ancora che potessero rendersene conto. Ammesso e non concesso che gli insetti di un tale discendenza, esponenti della classe operaia senza tempo, si siano finalmente decise ad accantonare il proprio senso implicito d’ingiustificata umiltà.

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