La funzione ormai dimenticata di un castello circolare tra le sabbie dell’alto Sahara

Cognizioni oggettive scientificamente confermabili, basate su resoconti precisi come oggetto di un antico lascito dei nostri antenati: ciò dovrebbe essere, idealmente, l’archeologia. Ma nello stesso modo in cui natura, geologia ed il clima terrestre possono produrre contingenze imprevedibili, nulla è necessariamente semplice nel contestualizzare o dare un senso a ciò che appare stolido ma imprescindibilmente isolato. Monade svettante nella valle anonima del grande fiume degli eventi. Che non è necessariamente fatto d’ACQUA; umida può essere, del resto, anche una metafora. E non c’è metafora più grande del deserto del Sahara. Ove generazioni di diverse civiltà si susseguirono, ancor prima che l’inclinazione dell’asse terrestre ne facesse scomparire 5.000 anni a questa parte le residue tracce di una fitta vegetazione, assieme branchi d’animali sconosciuti all’uomo. Ma non necessariamente, le tracce dell’uomo stesso? È di questo che si tratta, davvero? In fondo lo ksar (“villaggio fortificato” in lingua del Maghreb) di Draa, sorgendo dalle dune della regione di Timimoun, a 10 Km dal più vicino insediamento che nella sua semplicità urbanistica non può avere più di qualche secolo alle spalle, sembrerebbe di suo conto aver precorso ogni altra opera architettonica presente nel raggio di svariate province. Come nelle leggende di Atlantide o del continente perduto di Mu, per quanto fantastiche esse possano configurarsi a confronto con le alternative coeve di cui pur vagamente abbiamo confermato l’esistenza. Con la sua forma nettamente circolare fatta di tre zone concentriche: cortile esterno, intercapedine muraria, sancta sanctorum. La prima cinta delle quali, alta non più di un paio di metri e le altre due capaci di raggiungerne agevolmente i nove. Per lo meno lungo il punto più alto del perimetro evidentemente reso frastagliato dal passaggio del tempo. Resta indubbio, nel frattempo, come il clima secco e la totale assenza di diluvi torrenziali, per non parlare di eventuali inondazioni o terremoti, abbiano evidentemente favorito la conservazione integra del singolare monumento, costituendo paradossalmente il nucleo dell’enigma che persiste in merito al suo impiego ancestrale. Poiché resistendo ai segni del passaggio del tempo, ed in assenza di frammenti storiografici a cui far riferimento, esso costituisce oggi l’anomalia di un pezzo di storia situato da ogni punto rilevante fuori dal tempo. E le teorie si sovrappongono ormai da decadi, in merito a chi possa averlo costruito e perché, in quale provincia cronologica delle antecedenti tribolazioni e civilizzazioni intercorse…

Con un’ipotesi oggettivamente favorita in funzione dell’universale legge del rasoio di Occam, che pur esulando dalle norme esatte in grado di guidarci verso una risoluzione dei problemi nella narrazione, può costituire quanto meno un canovaccio utile a scovare le radici del pesante albero che regge il mondo. La Storia, per quanto ne abbiamo chiare nozioni, colloca in questa particolare regione sabbiosa le frequenti migrazioni e rotte commerciali dei popoli Berberi, il cui endonimo è Amazigh, linguisticamente e culturalmente derivanti dal nucleo della zona afroasiatica fin da un paio di millenni prima della nascita di Cristo. Essendo entrati progressivamente in contatto, già attorno in quello che potremmo collocare approssimativamente attorno al nostro anno Mille, con le genti del vicino Oriente ed in modo particolare gli eredi degli antichi imperi di Persia, le cui costruzioni architettoniche dimostrano alcuni tratti d’analogia con l’atipica pianta circolare dello ksar di Draa, oggi mantenuta bene in vista grazie al costante lavorìo degli enti turistici della regione, prevedibilmente interessata a farsi conoscere per le caratteristiche di cui è dotata nel preciso panorama storico nordafricano. Questo benché alcuni tratti distintivi, tra cui l’assenza di finestre rivolte verso l’esterno e stanze comunicanti vulnerabili ad assalti organizzati siano chiaramente insoliti nel panorama degli altri villaggi fortificati della regione. Il che ha permesso di elaborare, in epoca ancor più recente, l’ipotesi mirata a collegare il piccolo castello dai cerchi concentrici al regno degli Ebrei in esilio di Touat, giunti nella regione di Timimoun dopo essersi ribellati a Cirene nel secondo secolo dopo Cristo. La cui storia, prima dell’arrivo molto dei Musulmani, ha eluso lungamente l’opera dei filologi e studiosi interessati all’argomento al pari di altre ipotesi appartenenti al campo degli studi, per così dire, di confine. Fermo restando come, a ragion veduta, costituire un insediamento stabile in un luogo tanto remoto ed ormai privo di fonti d’acqua facilmente raggiungibili da almeno un paio di millenni dovesse necessitare di competenze ingegneristiche particolarmente avanzate, possibilmente affini al sistema molto successivo del lavoro condiviso del foggara. Utilizzato dai Berberi medievali per la costruzione di condotte sotterranee inclinate, che come gli analoghi qanat (acquedotti) arabi potevano veicolare il prezioso fluido a lunghe distanze, fornendone il prezioso approvvigionamento a regioni straordinariamente remote anche nello schema generale delle proprie zone d’appartenenza. Una visione certamente adattabile a questo ksar dall’aspetto insolitamente simmetrico, lasciando l’unica domanda residua (e fondamentale) di quale potesse effettivamente essere la sua principale modalità d’impiego…

Ed è soprattutto in questo, più che sotto altri punti di vista, che gli studiosi sembrano aver trovato da tempo un credibile consenso. Poiché cosa poteva essere altrimenti, la labirintina struttura tanto chiaramente e solidamente fortificata contro gli eventuali assalti dei briganti, se non una qualche forma variabilmente arcaica di caravanserraglio? Un luogo di sosta e rifornimento, concettualmente essenziale in qualsiasi ambiente dal clima desertico, ove far sostare le carovane permettendo nel contempo ai signori locali di tassare il contenuto dei loro bagagli. Un centro d’interscambio non soltanto materiale, dunque, ma ove le culture differenti erano solite trovare terreni comuni, discutere di religione e filosofia confrontando i sacri testi ed i profeti delle rispettive provenienze, creare le basi di un pensiero senza limiti, nazionali o imposti dall’alto, le cui dolorose conseguenze qui ed altrove abbiamo avuto il modo di conoscere nel lungo trascorrere delle epoche di cui abbiamo testimonianza. Poiché non soltanto la guerra, necessitava o motivava la costruzione d’alti castelli. Ed alla fine fu sempre il bisogno di ottimizzare le limitate risorse di cui potevamo disporre, a guidare le gesta e creare le utili giunzioni dell’indivisa gestalt dai plurimi interessi ed i bisogni incessanti. Che si chiama formicaio brulicante della laboriosa, inesorabile umanità.

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