La foresta che galleggia: belyana, vascello vessillifero del fiume Volga

All’inizio del 1945, qualcosa di abnorme fu visto avvicinarsi ai moli fluviali della città devastata di Stalingrado, già Tsaritsyn, dopo la ricostruzione destinata a diventare nota come Volgograd. Una struttura costruita in apparenza sulle acque, simile a una catasta di legna da ardere, ma molto più imponente in direzione orizzontale, verticale, in termini di capienza. Poiché il vascello dei rifornimenti edilizi, di questo si trattava, era costituito da molteplici strutture sovrapposte, le più elevate delle quali erano un paio di legnose dimore: vere e proprie casupole, con tanto di tetti spioventi, tegole e aperture idonee alla futura installazione di un comignolo. Mentre il complesso sistema di scale e passerelle, ideato per supplire all’assenza di un vero e proprio ponte superiore, appariva ombreggiato a tratti dai fluenti canovacci della serie di bandiere, alcune simili ad emblemi militari, altre riportanti vecchi simboli impiegati al fine di identificare gli oblast della Russia settentrionale. “Da noi, il popolo. Ai difensori della madrepatria dalle armate dei Tedeschi invasori.” Sembrava essere il messaggio sottinteso dell’impresa collettiva. Come un carro armato T-34, come un fucile Mosin-Nagant, come un bombardiere Ilyushin Il-2; ma infusa dello spirito dei secoli passati e ormai facenti parte, da ogni punto di vista rilevante, della storia pregressa di questo paese: belyana, la nave bianca della speranza. Bianca in quanto priva di una copertura di catrame ed anche la corteccia dei tronchi costituenti, principalmente derivanti di tronchi di pino e d’abete. E generalmente immensa, in quanto misurante in celebri casi pregressi fino 120 metri di lunghezza, per 12.800 tonnellate di peso. Non che per quanto concerne questo caso prototipico, riportato da plurime testimonianze orali ma mai messo per iscritto dagli storici coevi, si disponga di effettivi dati approfonditi in merito alla provenienza e l’utilizzo del battello, benché paia del tutto plausibile la sua venuta. Di беля́ны (belyany: plurale) qui ne furono d’altronde viste molte a partire dal XVI secolo ed ancor più ad Astrakhan e Saratov, presso le coste propriamente dette del Mar Nero, ove gli ingombranti vascelli terminavano tradizionalmente la loro prima ed ultima corsa, prima di essere completamente smontate e trasformate, esse stesse, nella materia prima in grado di costituire la ragione stessa della loro esistenza. Queste immense navi, tra le più grandi mai costruite interamente in legno e con tecniche straordinariamente distintive, costituivano in effetti la versione ultra-perfezionata di un metodo efficiente al fine di spostare i tronchi lungo il corso dei maggiori fiumi dell’Eurasia, tra cui il Volga ed il Kama, effettivamente l’unico a disposizione prima della costruzione di ferrovie all’inizio dell’epoca Sovietica. E per qualche tempo a seguire dopo la distruzione sistematica di queste ultime, ad opera delle truppe straniere inviate al fronte dell’Operazione Barbarossa per le acute ambizioni di un totalitarismo di tutt’altra matrice. E nessuno avrebbe mai potuto dubitare, persino agli albori dell’epoca contemporanea, della loro implacabile efficienza…

La storia effettiva delle belyany, destinata ad essere messa per iscritto soltanto secoli dopo la loro introduzione, trattandosi di un’attività popolare soggetta a mere considerazioni pratiche e modalità originariamente percepite come “automatiche” ebbe dunque inizio all’apice dell’era imperiale, presumibilmente durante il regno di Michail Fëdorovič Romanov o quello dei suoi successori, Alessio, Fedor III, Pietro il Grande. Quando i servi della gleba soggetti alle logiche del barščina (lavoro forzato a beneficio del proprio signore) venivano inviati nei boschi sulle rive dei fiumi maggiori e i loro tributari, ad abbattere tronchi per tutto l’inverno abitando piccole capanne non riscaldate, le zimnitsa (зимница). Dalle quali si spostavano agli albori della primavera con i propri carichi presso le segherie, prima dell’inizio di una saliente trasformazione. Giacché i tronchi non soltanto venivano privati del superfluo, corteccia, rami ed altri orpelli, ma venendo accatastati con sapienza cominciavano a formare quella che poteva solamente essere un’imbarcazione pronta all’uso. Con una forma certamente non identica alle alternative di tipo maggiormente convenzionale. Visto come la tipica belyana sorgesse a partire dallo scafo inchiodato fatto con i tronchi migliori, con diverse aperture finalizzate alla ventilazione, l’abbassamento dell’ancora e degli scandagli. Mentre la struttura superiore era da ogni punto di vista rilevante una vera e propria catasta del corpo degli alberi tagliati, sovrapposti ed incastrati assieme con una notevole fiducia nella forza di gravità al fine di tenerli strettamente assieme. Sormontavano il tutto, con tenore quasi surreale, una pluralità di semplici “cabine”, a tutti gli effetti delle versioni migliorate delle zimnitsa, spesso decorate e fornite di porte e finestre. Affinché al momento dell’arrivo, potessero essere scaricate esattamente così com’erano, venendo vendute alla stregua di residenze prefabbricate. Così come l’intera nave era soggetta, dopo i 3.000, 3.500 chilometri percorsi, a smontaggio totale trattandosi del raro caso di un vascello monouso, perfettamente pronto ad essere ricostruito nella mente dei propri ideatori. Espedienti estremamente ingegnosi, nel frattempo, ne permettevano l’efficace navigazione. Oltre al timone manovrato dal pilota e i fino 60-80 rematori, sarebbero state introdotte in seguito diverse àncore rotonde in ghisa pronte da gettare in caso di necessità di virate più strette, da un lato all’altro delle murate, il cui nome tecnico era quello di lotti (лота). Assolutamente primarie risultavano essere inoltre le zavoznya (завозня) barche a remi specializzate con capacità di carico di 5-10 tonnellate, in genere associate in numero di tre a ciascuna belyana, con finalità di controllo ulteriore, controllo dei fondali, occasionale liberazione dall’incagliamento parziale. Le vele, considerate importanti all’inizio, diventarono in seguito superflue con l’introduzione dei lotti e smisero di essere incluse, spesso a discapito di variopinte ed immense bandiere, con il sigillo delle provincie, dei mercanti proprietari di ciascun bastimento o diversi altri simboli tradizionali. Con l’arrivo della belyana stessa considerato come un’occasione di giubilo e una sorta di festa, determinate parti di essa, destinate in seguito a far parte di edifici pregiati, venivano inoltre riccamente decorate con intagli di scene folkloristiche o religiose. In breve tempo dopo l’approdo, ogni altro componente sarebbe scomparso, ciascun pezzo entrato a far parte del contesto urbano di finale appartenenza.

Che davvero le belyany ancora navigassero nel secondo dopoguerra, per quanto raramente, è un argomento soggetto a dibattiti. Benché sappiamo per certo che all’apice del loro successo commerciale, durante il XIX secolo, esse fossero praticamente ovunque, occupandosi dell’approvvigionamento tra le altre cose di legname combustibile per l’alimentazione dei sempre più diffusi battelli a vapore. Un ritrovamento archeologico molto importante, effettuato nel 2015 presso le rive del fiume Vetluga grazie alla segnalazione di un gruppo di turisti, avrebbe inoltre permesso di accertare come la loro forma strutturale di fondo fosse rimasta invariata per un periodo di oltre 350 anni. Cosa poteva esserci, in fondo, da migliorare? Simili creazioni assolvono in maniera pratica all’espletamento di un bisogno fondamentale. Prendere le cose e farle galleggiare da un luogo all’altro: uno dei principali gesti reiterati della gente che vive lungo il corso di un lungo fiume di questa Terra. Qualunque possa essere il rispettivo ambiente geografico, continente o contesto culturale di appartenenza.

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