L’uomo che seppe accompagnare una giraffa nel celeste impero dei Ming

C’erano naturalmente molti privilegi speciali nell’essere un favorito dell’Imperatore Yongle, fin dall’epoca in cui era soltanto un principe in esilio, intento a guerreggiare con il nipote. Soprattutto per colui il quale, tra molti, aveva condotto alla vittoria quegli eserciti nella feroce battaglia per Nanchino, in seguito alla quale, dimostrata la vulnerabilità all’artiglieria del palazzo reale sito nei suoi quartieri centrali, il sovrano del Regno di Mezzo aveva deciso di tornare nella città che era stata il suo feudo, Pechino. E lì far costruire un complesso d’edifici, cinto da una muraglia interna, sul principio delle fortezze precedentemente appartenute ai dinasti un tempo nomadi della discendenza Yuan. Ove soltanto le donne, e gli immancabili eunuchi, potevano avere un accesso privo di ostacoli al di fuori di tempi e luoghi definiti. Lo stesso sfortunato (ma non raro) destino anatomico a cui il caro vecchio Zheng, al secolo Ma He, era andato incontro anni prima, nel 1381 a seguito della riconquista della comanderia islamica di Kunyang. Ma se attraverso tali lunghe decadi la sua categoria civile, nonché professione involontaria era giunta ad amministrare una parte considerevole del potere centrale, ciò era anche e soprattutto dovuto alla fiducia che il principe di Yan, ancor prima di accedere al trono Celeste, aveva scelto di riporre nel suo luogotenente preferito. Tanto da accordargli il privilegio di condurre la più potente e vasta flotta che il mondo avesse mai conosciuto, oltre mari sconosciuti e nella pletora di regni che potevano, e dovevano rendere omaggio alla sola nazione con il privilegio di essere la favorita del Cielo e della Terra, la Cina dei Ming. Ma anche quello di tornare, ogni volta, in trionfo e superare le agguerrite guardie di palazzo, con una schiera di portatori appesantiti da doni magnifici, le ambascerie o i sovrani stessi catturati e riportati indietro nei suoi viaggi e l’occasionale, incredibile animale riportato dall’Occidente. Ma questa volta, indubbiamente, le cose sembravano diverse. Già dal momento in cui le centinaia di navi e i 27.000 uomini della flotta del tesoro avevano approdato presso l’unico porto abbastanza grande da contenerle, a Longjiang, la voce si era sparsa che l’ammiraglio aveva riportato con se una bestia degna di innumerevoli poemi e leggende: niente meno che il Qilin, l’unicorno draconico, una delle bestie guardiane a fondamento delle antiche discipline filosofiche e dell’alchimia cinesi. Alto, magnifico con il suo manto variopinto, il collo teso a sfidare l’elevazione delle nubi stesse, con due corna ricoperte di pelo come scritto negli antichi testi e lunghe zampe dagli zoccoli fessurati. La snella ma imponente creatura, la cui testa ora spuntava sopra le ornate tegole della sala dell’Educazione Mentale, un palazzo minore destinato a diventare nei secoli la residenza dei successivi detentori dell’egemonia Ming. Al cui ingresso Yongle in persona, sopra una piattaforma rialzata in cima all’ampia scalinata, sedeva in paziente attesa circondato dai suoi consiglieri, le concubine preferite ed uno stuolo di fedeli eunuchi di corte. Così che, quando il tributo vivente di re Saif Al-Din Hamzah Shah del Bengala, in quel fatidico 1414 giunse al suo cospetto, egli poté guardarlo dritto negli occhi, accedendo alla massima energia residua della sua imprescindibile buona sorte.

È inutile a questo punto sottolineare come tale bestia fosse null’altro che una Giraffa camelopardalis, probabilmente uno dei singoli e maggiormente magnifici animali di questo pianeta. Soprattutto per chi non ne aveva mai vista una in precedenza, appartenendo ad un’altra zona del mondo in un’epoca in cui la comunicazione a distanza non era semplicemente ancora quella dei nostri giorni. Ed è forse proprio questo il nocciolo della questione, che avrebbe portato un’Impero principalmente preoccupato di questioni interne come ricostruire e rafforzare la Grande Muraglia, dinnanzi alle invasioni mai cessate del tutto dei loro antichi nemici Mongoli, a investire risorse immense nel contattare, chiedere tributi e far conoscere la propria potenza presso le terre dei barbari, nati loro malgrado eccessivamente lontano dal centro esatto del mondo. Un percorso già battuto in precedenza, a dire il vero, con le celebri esplorazioni che avevano portato i messi del regno dei Wu Meridionali (223-280 d.C.) fino ai confini dell’Impero Romano d’Oriente. Ma mai con le stesse prerogative e la quantità di uomini facenti parte dei sette viaggi che furono capitanati dalla figura per certi versi immortale dell’ambizioso ed abile Zang He. Il quale, potendo trarre giovamento dalla completa fiducia del suo signore, si presentò spesso con tutta l’autorità che ne costituiva il simbolo, ed accompagnato di forze militari, impressionanti cannoni ed armi esplosive (la polvere da sparo, nel XIV secolo d.C, era una conoscenza tutt’altro che acquisita per la stragrande maggioranza dei popoli coévi) e quella che gli storici avrebbero definito la “camminata della tigre”. Tranquilla e distaccata finché qualcuno non osava mancargli di rispetto, nel qual caso avrebbe sfoderato i suoi artigli taglienti quanto le antiche alabarde degli unificatori del territorio cinese. Come quando, nel suo primo viaggio del 1407, aveva sconfitto il temibile signore dei pirati degli Stretti a Palembang, liberando la Malacca e riportandolo in pesanti catene innanzi a Yongle, nello stesso modo in cui adesso stava facendo con la mitologica creatura maculata. O nel secondo viaggio aveva ottenuto 60.000 lian d’argento come pagamento dal Re di Java, dopo che un’ambasceria cinese era stata uccisa, probabilmente per errore, nel corso della guerra civile che aveva recentemente smesso di sconvolgere quel potente paese. A tal punto le sue migliaia di uomini, assiepati sulle giunche a cinque alberi con stive immense, con una lunghezza stimata da un minimo di 50 a un massimo di 150 metri, ovvero quasi i due terzi del Titanic (questa la cifra testualmente menzionata in alcuni testi di quegli anni, tra cui i diari di Marco Polo ed il viaggiatore arabo Ibn Battuta) potevano mettere a freno l’intento di ribellarsi dei loro ospiti d’occasione, necessariamente pronti a riconoscere la lunga mano del signore incontrastato di Tigri e Dragoni. Proporzioni difficilmente immaginabili con il livello tecnologico dei Ming, benché il fatto che diversamente dai galeoni o caravelle dell’epoca dei grandi esploratori, queste imbarcazioni non dovessero mai allontanarsi dalla costa rende idealmente possibile la realizzazione di una tale imponenza. Per ulteriori imprese piene di vittorie militari in Asia Orientale e fino al quarto viaggio del 1421, quando per la prima volta la flotta del tesoro varcò lo stretto di Hormuz raggiungendo l’Arabia e l’Africa, da cui sarebbe ritornata carica di bestie favolose come struzzi, cammelli e naturalmente, lo svettante ungulato delle leggende. Fino alle coste di Malindi, ove Zhang He avrebbe fatto ritorno in seguito nel quinto e sesto viaggio, chiedendo ogni volta al suo signore di abbassare il tributo richiesto, al fine di evitare tatticamente il conflitto con genti in una possibile campagna militare particolarmente ricca d’insidie. Ma la situazione politica di Pechino, a quel punto, era cambiata per la morte dell’imperatore Yongle ed il suo successore Hongxi non era, semplicemente, altrettanto affascinato dall’esplorazione di terre e pasi lontani. Inoltre il notevole costo delle spedizioni aveva ormai iniziato a erodere le casse dello stato, senza che i doni e tributi riportati indietro potessero effettivamente colmare quel gigantesco vuoto. Gli anni della giraffa portata in glorioso trionfo nella capitale, purtroppo, apparivano ormai lontani…

Ma il vero problema fondamentale, nell’opinione di molti, era un altro. Nascente in quel periodo all’interno dell’organizzazione civile dell’Impero, figurava il seme del conflitto interno che avrebbe molti anni dopo portato al suo collasso. L’imprescindibile e radicata rivalità tra l’aristocrazia in senso tradizionale ed il nuovo “potere ombra” della classe degli eunuchi, che dopo il proprio estremo sacrificio avevano il vantaggio e la possibilità d’insinuare ininterrottamente i propri pensieri all’interno delle orecchie del sovrano. E sempre più spesso “alleggerirlo” dal peso innegabile di amministrare l’Impero, arrogandosi illegalmente dei poteri che formalmente non facevano parte delle loro competenze acquisite. Una logica secondo la quale i regolari viaggi di Zang He, o di chiunque avrebbe assunto il suo ruolo in seguito, avrebbero costituito un ostacolo eccessivo alla decentralizzazione del potere commerciale ed economico, per coloro le cui prerogative restavano da sempre legate al controllo delle rispettive comanderie, o province d’appartenenza. Tanto da riuscire, in quel frangente, a persuadere le più alte strutture del potere che il più fragile e meraviglioso dei costrutti messi in opera dal suo predecessore era ormai semplicemente desueto, e come spesa inutile doveva essere eliminato. Nessuna svettante giraffa o ipotetico elefante avrebbero dunque più percorso gli augusti viali della Città Proibita. Neppure in seguito all’inizio e al prolungarsi dell’interminabile epoca post-moderna… Ma d’altronde potremmo anche affermare in funzione di ciò ed alquanto ottimisticamente, che c’è ancora tempo?

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