Scansiona la maniglia con il suo singolo occhio rotativo, alza il polso snodabile a 360 gradi, muove la pinza in avanti di 40 cm, poi la stringe saldamente e preme in giù. È…Aperto? Inginocchiato innanzi all’uscio del futuro, HUBO DRC, il più fantastico dispositivo antropomorfo coreano. Frutto dell’opera di ricerca e sviluppo del team KAIST (Korea Advanced Institute of Science and Technology) di Daejeon, ma il cui acronimo nel nome sta per le tre fatidiche parole Darpa, Robotics e Challenge. Si trattava di una sfida internazionale pensata per stimolare la ricerca, tenutasi dinnanzi all’intero gotha tecnologico corrente, della quale il mondo non aveva mai conosciuto in precedenza l’eguale. C’erano (quasi) tutti al Fairplex di Pomona, gli scorsi 5 e 6 giugno: Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, anche noi italiani con un pregevole progetto dell’Università di Genova, il Walk-Man. Ma nessuno, alla fine, ha potuto prevalere contro il rappresentante della penisola orientale della lunga dinastia Joseon. È preciso, reattivo, responsabile. Quello che non riesce a fare, per il momento, sembrerebbe affrettarsi in molti dei suoi compiti, almeno a giudicare dal presente video in timelapse, riduzione a un tempo di quattro minuti e mezzo di quello che in origine richiese esattamente 10 volte tanto. Ma quando questa macchina realmente fa qualcosa, guardarla è uno spettacolo davvero illuminante. Non per niente, a seguito di questa complessa e variegata performance, i suoi costruttori provenienti dal semplice ambito accademico hanno incassato dall’agenzia statunitense organizzatrice un assegno di ben 2 milioni di dollari, probabilmente già investito in parte per migliorare ulteriormente la manifestazione metallica più celebre al momento. E il resto, chi lo sa… Guardatelo, mentre scende dall’automobile elettrica, con leggiadrìa del tutto comparabile a quella di un anziano di 95 anni! Pensate che soltanto questa operazione, molto più complessa di quanto potrebbe sembrare in teoria, soprattutto per un essere animato da molte decine di motori indipendenti, ha richiesto innumerevoli tentativi fallimentari portando al sovraccarico lesivo di costosi componenti. Finché non si è giunti a questo compromesso, degli esattamente 100 Newton di potenza per ciascun braccio, validi a risolvere il problema in tempo utile, se non proprio fulmineo. Ciò che viene dopo, poi, è semplicemente straordinario.
Nel progetto tecnico del KAIST, s’intravede la sapienza di chi interpreta i regolamenti non tanto con la logica, come in effetti non sarebbe mai il caso di fare, ma perfettamente alla lettera, cercando il metodo migliore di superare le aspettative dei giudici di gara. “Ah, si?” Deve essersi detto silenziosamente il Prof. Jun Ho Oh, caposquadra dell’operazione: “Dobbiamo costruire un robot che sia in grado di guidare, aprire una porta, impiegare attrezzi, superare un tratto ricoperto da detriti vari e poi salire le scale?” Mumble, mumble: “E chi ha mai detto che dovrà fare tutto questo, camminando?” Quindi, ecco il colpo di genio: l’HUBO (il cui primo nome, con scelta veramente originale nel suo campo, non è in effetti l’acronimo di nulla) è sostanzialmente in grado di trasformarsi, esattamente come i mecha dei cartoni animati giapponesi, benché in modo meno drammatico e spettacolare. Nei momenti in cui deambula sul suo tragitto, infatti, piuttosto che affidarsi alla rischiosa operazione di mettere un piedi innanzi all’altro, costata rovinosi capitomboli a diversi dei suoi temutissimi rivali, il robot poggia le ginocchia a terra, sfruttando le ruote che incorpora poco più sotto per procedere sicuro verso il suo obiettivo. Quasi tutto nei suoi sistemi è stato concepito appositamente per la sfida presente, a differenza di quanto fatto da molti dei team concorrenti, che si sono limitati ad adattare ciò che avevano di pronto, oppure a potenziare in vari modi l’ormai celebre robot umanoide Atlas della DARPA stessa, che era stato fornito dopo le eliminatorie, assieme a dei finanziamenti, alle migliori squadre statunitensi (ce n’erano ben 11), al team dell’Università di Hong Kong e a quello misto USA-Germania dei VIGOR, che l’ha subito colorato di rosso e gli ha dato il nome Florian, da quello del santo protettore dei pompieri.
Il che ci porta, senza soluzione di continuità, al punto d’origine di una tale disfida, nata originariamente nel 2012 e a seguito dei gravi eventi dell’anno precedente presso la centrale nucleare di Fukushima in Giappone, dovuti ai danni causati dallo tsunami del Tōhoku. Situazione in cui, ancora una volta, si palesò al mondo la problematica di far intervenire operatori umani in situazioni impossibili, in cui spesso il benessere di molti significava mettere a rischio la salute, o le prospettive di vita, di alcuni singoli e spregiudicati eroi. E benché non sussistette fortunatamente in quel caso la stessa situazione delle circa 240.000 persone rimaste attorno a Chernobyl, che a seguito del 1986 riportarono una dose critica di radiazioni e conseguentemente ricevettero la medaglia con lo status di likvidatory (liquidatore), qui ci furono comunque 50 individui, tutti dipendenti dell’impianto di gestione, che rimasero a contenere l’entità del disastro, tra cui 20 rimasero feriti a seguito degli incendi e le esplosioni, senza parlare delle conseguenze a medio e lungo termine tutt’ora poco chiare.
Ed è questo, dunque, l’obiettivo finale: perché un robot nei fatti comparabile ad un essere umano, con due gambe, braccia, occhi e la capacità di svolgere mansioni, potrebbe diventare il nostro ersatz (per usare un termine particolarmente caro a certe correnti della fantascienza) non soltanto salvandoci dai danni, ma non risentendo esso stesso in alcun modo dell’assenza di ossigeno, delle fiamme che avanzano, delle emissioni venefiche di sostanze come il carburante nucleare. Che un tale essere sia poi, tra le altre cose, splendido e terrificante al tempo stesso, è una caratteristica per così dire accidentale. Ma molto sfruttata, essa stessa…
Sono ormai diversi anni, del resto, che l’Agenzia per i Progetti di Ricerca Avanzati della Difesa (DARPA) ci bombarda con i fenomenali video messi assieme dal suo contractor privato principale, la compagnia Boston Dynamics, realizzatrice tra le altre cose degli ormai amatissimi robot quadrupedi Cheetah e Bigdog, oltre che dell’Atlas umanoide, variabilmente personalizzato da molti dei team partecipanti alla gara dello scorso giugno. Se si trattasse di una compagnia di marketing, diremmo che è specializzata nel virale.
Fa però eccezione questo estratto decontestualizzato di una conferenza del MIT, recentemente fatto rimbalzare per i canali non del tutto ufficiali dei principali social network, in cui il fondatore della compagnia Marc Raibert, parlando probabilmente a un pubblico di specialisti, faceva una breve rassegna degli ultimi progressi compiuti con alcuni dei suoi robot più famosi. Ciò perché a lato di lui che parla, compaiono alcune immagini particolarmente interessanti, non ancora rilasciate al pubblico. Innanzi tutto di uno dei loro camminatori a quattro zampe, all’interno di un laboratorio, fornito per la prima volta di un braccio snodato con pinza prensile, perfettamente in grado di aprire la porta alla stessa maniera dell’HUBO coreano. Con la significativa differenza che trovandosi nella posizione di un collo di animale, rende l’insieme simile a un curioso brontosauro, o la versione maggiorata della tipica tartaruga alligatore. Segue una corsa a perdifiato dell’ultima versione dell’Atlas in mezzo a una foresta, dimostrando una capacità di adattamento al suolo disuguale assolutamente senza precedenti, benché rimanga necessario un cavo esterno di alimentazioni. Semplici dettagli, piccole limitazioni pienamente superabili. Basta osservare, come riferimento, la varietà di progetti presentati alla Robotics Challenge, di cui alcuni bipedi, certi su ruote o quadrupedi, altri ancora, vedi il team KAIST, in grado di alternarsi tra una o più configurazioni, per rendersi conto di quanto lo sviluppo tecnologico di questo campo sia simile all’evoluzione. Si potrebbe in effetti fare un parallelo con la teoria oggi screditata del Lamarckismo (Jean-Baptiste de Lamarck, 1744-1829) secondo cui qualsiasi specie animale migliora se stessa attraverso le generazioni, non soltanto per l’effetto della selezione naturale, ma perché aspira nel suo essere a superarsi ripetutamente. Ma se un robot è un semplice oggetto e dunque privo di un pensiero, da dove “viene” il suo sublime desiderio? Ah, questa è una storia veramente degna di un essere accennata…
La sfida dei popoli, l’orgoglio nazionale. Quante terribili conseguenze, attraverso la storia dell’uomo, sono derivate dal bisogno di dimostrare, con i fatti e con la forza, che il proprio stile di vita era migliore, in qualche modo meritevole di avere la precedenza sugli altri assembramenti umani contrapposti… Ed è anche a questo, dopo tutto, che ci servono gli eroi: perché se una manciata di individui si dimostrano talmente eccezionali, e al tempo stesso facilmente inseribili in una logica di conformità, da poterci rappresentare in modo ragionevole, a che servono le guerre, i conflitti tra generazioni? Questa storia del GIANT ROBOT DUEL non sarebbe altro che la storia romana degli Oriazi e Curiazi, originariamente narrata da Tito Livio (59-17 a.C.) che in una singola tenzone fecero la fine di Albalonga, senza versare il sangue degli eserciti schierati, ma soltanto il loro. Così, se tutto migliora col passar dei secoli, è possibile eliminare anche quella necessità.
Soltanto una questione di metallo e di motori: questa è la tenzone proposta, il mese scorso, dal gruppo statunitense della MegaBots Inc ai giapponesi Kuratas, già produttori nel 2012 dell’omonimo robo-mezzo d’intrattenimento, famosamente mostrato al grande pubblico di YouTube come se si trattasse di un prodotto fatto in serie. Così avviene, adesso, che questi loro improbabili competitors dell’altro lato del Pacifico, sospinti da una forma quasi comica di patriottismo (nel primo video indossavano bandiere come fossero mantelli) abbiano deciso di “sfidarli a combattere” con un loro mezzo quasi equivalente, ma concepito per rispondere al gusto duro & puro tipico degli Stati Uniti: ruggine, bulloni a vista, cingoloni sporchi e consumati. Almeno per ora, visto come nel secondo episodio della saga qui sopra riportato, i due rappresentanti del progetto siano a presentarci i loro prestigiosi sponsor, oltre a chiederci personalmente, come niente fosse, appena 500.000 dollari provenienti dalle nostre tasche internettiane, in cambio di ninnoli e memorabilia varia.
È il classico paradosso di Kickstarter: un video fatto di fumose speranze, spezzoni di cartoni animati e film, illustrazioni totalmente scollegate dalla realtà del prototipo mostrato fino ad ora. Ma che tuttavia probabilmente varrà in finanziamenti, al geniale gruppo produttore, una cifra comparabile o persino superiore ai due milioni di dollari vinti dai coreani di HUBO, ricevuti solamente a seguito della difficile vittoria conseguita in quel di Pomona. Lo spettacolo dei gladiatori, prima del sapere dei pretòri. Far rumore frutta splendidi sesterzi. Dove sarebbe mai, la novità?