Splendido metallo dalle molte cromature, prevalentemente di colore rosso. Curve frutto di un attento sforzo progettuale. L’unica parte rettilinea: il parabrezza, perché il vetro temprato, da che l’hanno creato, non si può piegare, pena perdita di resistenza. Mentre sul cofano bombato, campeggia un cavallino in campo giallo. Disegnato, punto. Mica è una Rolls questa, ragazzi! Quella cosa fatta per sfilare sulle strade sonnolente del profondo lusso… Tutto, in questo arnese veicolare rigido e nervoso, è stato concepito per non disturbare i flussi dell’aerodinamica, che tanto maggiormente sono significativi ed importanti, quanto più si va veloci. E non soltanto le auto sportive oppur da corsa, bensì addirittura gli aeroplani, debbono venire messi, a un certo punto del processo costruttivo, dentro a un tubo scuro, giù nello stabilimento, per provare come spostano quel fluido d’invisibile possanza, l’aere trasparente. Ovvero, l’atmosfera. Tutti, in linea di principio, ben conoscono il tunnel del vento, luogo in cui viene simulato tale spostamento, spinta innanzi con la forza di turbine o gran ventilatori, alle velocità obiettivo del gingillo di giornata. Ma di sicuro non avrete pensato che una tale cosa funzionasse, unicamente, grazie all’uso del computer! Che in qualche maniera, vibrazioni impercettibili dell’atmosfera fossero reinterpretate da sensori, trasferite in numeri, ed usate per il calcolo degli ingegneri… Anche perché, se così fosse stato, e parliamoci chiaramente: oggi è possibile virtualizzare addirittura il vento, ebbene si, ve lo concedo! Ma se così fosse stato da principio, allora che ce la mettevi a fare, l’automobile nel tunnel? Tanto valeva simulare pure quella.
L’aeronautica conta ormai oltre un secolo di vita. Mentre i recenti processori miniaturizzati, le schede video, i sistemi di calcolo euristici e tutte le altre diavolerie non hanno che un secondo di vita, al confronto, lungo l’asse della storia tecnologica del mondo. Si progetta, con la mente. Si costruisce, con le mani. E per valutare il frutto della propria laboriosa impresa, da che mondo è mondo, si usa il senso principale della scienza, l’occhio umano, che può percepire molte cose. Tranne normalmente, il vento (che ci serve appunto in questo caso). Perché è ovvio, se ci pensi. Potrebbe mai vivere il pesce nell’Oceano, se “vedesse” l’acqua? Qualora le correnti, i vortici, gli accidentali mulinelli, fossero per lui come le nubi del vasto cielo, agli occhi degli abitatori della superficie…Non potrebbe mai trovare il cibo, e ancor meno il suo sentiero verso casa. Ecco, noi così, con l’aria. Gli organi di ogni forma di vita si sono evoluti, attraverso i secoli e i millenni, per percepire cosa serve necessariamente: la roccia, l’albero, la tigre in agguato tra il canneto. Ed ignorare tutto il resto. Ma è qui che rientra in gioco quella risorsa fuori dai comuni meccanismi della vita. La lente artificiale della tecnica applicata.
È molto logico, a posteriori. Eppure deve aver lasciato il fisico tedesco August Toepler (1836 – 1912) totalmente senza fiato, quando nel 1864, impegnato nello studio del moto supersonico, non giunse per gradi a costruire il primo di questi apparati, detti fotocamere Schlieren, ovvero [della] scia. Oggi simili dispositivi, e i loro remoti eredi in grado di realizzare facilmente delle riprese video, si trovano collocati presso le maggiori fabbriche di automobili, aeroplani e in molti laboratori dediti allo studio della fisica. Inoltre, la relativa facilità di costruzioni li ha portati a diffondersi nelle aule delle grandi università, come quella di Harvard, che è per l’appunto, la realizzatrice del video di apertura.
Tutto quello che la presente meraviglia ottica si occupava di fare, fin da principio, fu rimuovere il superfluo. Ti pare poco. Guardare oltre, metaforicamente ed anche in senso lato, la comune piegatura della luce. Per vedere…La realtà! Chissà quanti sedicenti evocatori degli spettri, presunti medium che vantavano un canale per parlare con i morti, avevano istintivamente ricercato soluzioni simili, per affascinare, mettere in soggezione i propri clienti. Non a caso, l’ambientazione misteriosa per eccellenza è sempre in penombra, nella regione intermedia in cui l’occhio vede. Ma non tutto, come sempre. E così anche il tunnel del vento, niente luci per Ferrari ed aeroplani, finché non fuoriescono cambiati. Il perché comincia da quel metodo…
L’ottica Schlieren convenzionale prevede l’impiego di un fascio di luce collimata, ovvero in cui tutti i raggi sono paralleli. Il che, in natura, non succede mai, poiché la luce è un’onda che si propaga, quindi, da un singolo punto verso tutta l’area circostante. Se concentrata e direzionata, ad esempio da una torcia, diventerebbe conseguentemente un fascio, con la forma approssimativa di una V. A meno che non intervenga, sul suo passaggio, uno specchio convesso, come quello usato nell’esperimento di Harvard qui sopra riportato.
August Toppler e suoi successori posero quindi un SECONDO specchio convesso in asse diagonale. Tra i due, l’oggetto da osservare. Oggi quest’ultimo potrebbe essere una candela, un recipiente, un’automobile… Per leggi fisiche geometricamente molto logiche (osservare il secondo video a corredo) il fascio collimato rimbalza e si concentra, diciamo al 90%, in un unico punto focale. Ed è lì che viene il bello. Perché allora lo sperimentatore, l’ingegnere, il professore, lì colloca una sottilissima barriera, che tradizionalmente sarebbe una lama di coltello, oppure di rasoio. Bloccando la luce, di certo non tutta. Ma in buona parte. Ciò che raggiungerà, quindi, il riflesso dello specchio non saranno i raggi diretti del fascio. Bensì unicamente quelli deviati, sia pure di un millimetro, in tempo reale dagli spostamenti di ciò che li circonda. Proprio l’aria, guarda caso! Ecco quindi, che diventeranno visibili, nell’ombra su parete o sensore di videocamera, le correnti mosse da un ventilatore, il muoversi dei gas inerti, l’ascesa inesorabile del calore verso l’alto e addirittura il propagarsi di un singolo suono, come il battito di due comune mani.
Luce, suono, movimento: se ci fossimo basati unicamente sulle nostre percezioni umane, mai e poi mai, li avremmo detti collegati. Si andò avanti così per tempo immemore. Finché non arrivarono quelle persone, con la voglia di provare, gli strumenti e la preparazione giusta. Per portare sotto ai nostri occhi gli eteri attraverso cui guardavamo, ciechi alla Presenza. E che respiravamo, senza annusare i dolci frutti della scienza.
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